14 giugno 2022

di Francesco Ramella

L’Europarlamento ha detto stop. Dal 2035 non potranno più essere venduti nella Unione Europea veicoli alimentati a benzina, gasolio e ibridi.

È un ulteriore tassello della politica adotta dalla Unione Europa per il contrasto al cambiamento climatico che prevede la riduzione delle emissioni del 55% rispetto al 1990 nel 2030 e l’azzeramento delle stesse al 2050.

Si tratta di una strategia che potremmo definire sovranista e che ricorda da vicino i piani quinquennali sovietici. Viene fissato a priori un obiettivo e si assume il costo per conseguirlo come variabile indipendente.

Essa va ad aggredire una quota delle emissioni che negli ultimi decenni si è fatta sempre più piccola: i ventisette Paesi che compongono l’Unione rappresentavo il 40% della CO2 mondiale a inizio dello scorso secolo, il 25% negli anni ’60 e il 7,5% nel 2020. È ormai vicino il sorpasso dell’India mentre la Cina emette già oggi quattro volte più di noi.

Una recente valutazione economica dell’approccio prescelto da Bruxelles per l’azzeramento dei gas a effetto serra al 2050 stima un impatto economico negativo pari ad almeno tre punti del PIL mentre i benefici ammontano allo 0,3% e, dunque, il rapporto benefici/costi è intorno a un decimo.

L’inefficienza dell’adozione di standard a livello generale e di altri specifici di settore è peraltro cosa nota. La maggior parte degli economisti ritiene preferibile l’adozione di una carbon tax uniforme applicata a tutte le emissioni. Tale soluzione farebbe sì che ogni singolo attore economico, produttore o consumatore, riduca le emissioni adottando la strategia che minimizza l’onere da sostenere e che il decisore politico non è in grado di conoscere (così come il pianificatore nelle economie dove l’iniziativa economica era controllata da soggetti pubblici non disponeva di informazioni sufficienti per allocare in modo efficiente le risorse).

Le incertezze in merito agli impatti negativi del cambiamento climatico fanno sì che il livello corretto del prelievo non sia definito in modo univoco. Uno degli aspetti più problematici è quello relativo ai cosiddetti “tipping point” ossi i punti critici, oltrepassati i quali, si possono manifestare mutamenti di ampia porta e irreversibili. In un articolo scientifico pubblicato su PNAS, la rivista ufficiale dell’Accademia nazionale delle scienze degli Stati Uniti, alcuni ricercatori giungono alla conclusione che, tenendo conto di tali elementi, il costo sociale di una tonnellata di CO2 si attesterebbe intorno ai 65 dollari. Un’altra stima fornisce un valore massimo intorno ai 140 dollari, declinante dopo il 2040.

Ora, se consideriamo il settore del trasporto stradale in Italia e in Europa, l’attuale tassazione dei carburanti è equivalente a una carbon tax che si attesta intorno ai 300 € per tonnellata emessa ossia un valore superiore a quello ottimale e, tranne rari casi, maggiore di quello che tiene conto anche degli altri impatti ambientali (inquinamento dell’aria e rumore). E, se si considerano le altre forme di prelievo che gravano sul possesso e uso dell’auto, l’imposizione fiscale per tonnellata più che raddoppia.

In una tale condizione non sono giustificate altre forme di regolamentazione: le auto a più basse emissioni di CO2 sono favorite rispetto a quelle tradizionali in quanto soggette a un minore prelievo fiscale.

Sussidi e divieti rappresentano un eccesso di zelo che, seppure in modo indiretto e nascosto, determinano costi di abbattimento superiori a quelli minimi possibili.

Si può anche notare come una parte consistente delle emissioni di CO2 nel mondo potrebbe essere oggi abbattuta a costi inferiori ai 70€ per tonnellata. L’intero settore del trasporto stradale in Italia oggi emette all’incirca 90 milioni di tonnellate: sarebbe possibile renderlo “climaticamente neutro” con un costo intorno ai 6 miliardi per anno ossia meno di un decimo di quanto automobilisti e imprese di autotrasporto versano ogni anno nelle casse dell’erario.

La elettrificazione a tappe forzate, per quanto inefficiente, nel medio lungo periodo risulterà peraltro una strategia efficace per abbattere le emissioni di auto e camion. La stessa considerazione non vale per l’altra politica promossa dalla UE a suon di molte decine di miliardi di contributi pubblici ogni anno, quella del cosiddetto cambio modale ossia la riduzione dell’uso dell’auto a favore di treni e trasporti collettivi. Se il futuro dell’auto sarà tutto elettrico e se continueremo a decarbonizzare la produzione di energia, la ferrovia, lungi dall’esserne una componente chiave come favoleggiano a Bruxelles, diventerà sostanzialmente irrilevante per il clima del futuro.