
6 luglio 2025
di Marco Ponti
L’aumento proposto, e poi subito ritirato, dal ministro Salvini, era davvero molto modesto: frazioni di Euro al km. Ma serviva a pagare dei costi di manutenzione imprevisti, cioè si tratta di un intervento arbitrario: perché dovevano pagare gli utenti delle autostrade? Non bastavano le risorse “normali” a questo destinate? Considerando poi che il traffico stradale genera allo Stato, con le tasse sulla benzina ecc., più di 40 miliardi annui al netto delle spese per il settore.
Evidentemente si ritiene che le tariffe autostradali siano un rubinetto di soldi sempre apribile.
Ma il problema degli aumenti si ripresenterà, e con cifre ben più consistenti, che sarà difficile contestare: sono frutto di contratti con i concessionari, e quando si sono bloccati gli aumenti, si è trattato solo di un rimando, recuperato poi con gli interessi.
Pena cause milionarie destinate a essere perse dallo Stato.
Tutto nasce dalla scelta di far pagare direttamente agli utenti le autostrade, al contrario delle ferrovie e di altre infrastrutture. Erano gli anni ’60 del ‘900, del boom della motorizzazione privata, che era ancora considerata roba per ricchi, e comunque gli utenti, felici delle loro macchine nuove, pagavano volentieri le autostrade.
Era un metodo inefficiente: le infrastrutture è meglio farle pagare dalla fiscalità generale, come vedremo.
E il problema è rimasto poi quando si è deciso di privatizzare il sistema, per la fretta di incassare soldi freschi, e per il fatto che rimanevano una fontana di soldi.
Ma non era una buona ragione: i privati qui non potevano portare innovazioni tecnologiche, o grandi aumenti di efficienza.
Portavano solo obiettivi di profitti monopolistici, cioè di rendite.
E il sistema partiva squilibrato: il concessionario principale, AspI dei fratelli Benetton, gestiva tre quarti della rete, con un potere negoziale fortissimo, e neppure motivato da economie di scala.
Hanno pagato cara la concessione, ma hanno spuntato un contratto che gli ha fatto recuperare rapidamente i soldi pagati, e poi fare profitti straordinari in pochi anni.
Nessuna vera concorrenza, e un controllo pubblico debolissimo sulle manutenzioni, fino al crollo del ponte Morandi a Genova, e una rinazionalizzazione con un “premio” di 7 miliardi, reso inevitabile da un contratto molto benevolo nei confronti del concessionario.
Ma quel “premio” non lo ha pagato lo Stato, responsabile di quel contratto: è andato di nuovo sugli ignari utenti, abituati a pagar sempre tutto.
Una gallina dalle uova d’oro, infatti nessuno mai ha valutato se per caso le tariffe avessero già ammortizzato gli investimenti.
In Spagna questi conti li hanno fatti, e un’importante autostrada è stata resa gratuita.
Che il sistema di far pagare agli utenti i costi di investimento sia inefficiente, è evidente dal fatto che le infrastrutture nuove, che in genere partono con poco traffico, sono molto più care di quelle vecchie, spesso congestionate.
In Lombardia, il caso della Brebemi, nuova e deserta, parallela alla A4 congestionata è emblematico del problema.
Ma si potrebbe intervenire eccome a modificare questo sistema, generoso solo con i concessionari, adesso che quello principale è ridiventato pubblico. Si possono mantenere a carico degli utenti i costi di investimento, garantendo ai concessionari la copertura dei loro costi, ma togliendogli il rischio-traffico, che ha sempre generato, nelle formule che determinano le tariffe, forti extraprofitti.
Il totale dei costi fissi del sistema, in particolare gli investimenti, si possono spalmare in base solo alla lunghezza percorsa dai veicoli. E questo è anche giusto: i benefici degli utenti non dipendono certo da quanto è recente l’investimento, ma solo da quanta strada fanno.
Si tratta di promuovere gradatamente una tariffa in due parti, che anche per la teoria economica è un compromesso ideale: una parte fissa, e una variabile con la congestione, in modo da indirizzare i flussi di traffico in modo efficiente. I concessionari, si sa, vogliono invece tenersi il rischio-traffico. Ora, se un’impresa privata vuole tenersi un rischio, è evidente che è ben sicura che quello non è un vero rischio, ma solo uno strumento per fare profitti.