7 dicembre 2023

di Marco Ponti

Un po’ di storia del problema: il servizio nasce quando avevano la macchina solo pochi ricchi. E solo pochi ricchi potevano permettersi il taxi, cioè un noleggio con autista con tariffe legate alla percorrenza. E il traffico ovviamente non era congestionato.

Nessun problema era in vista, le licenze erano date a chi le chiedeva e aveva i requisiti, e crescevano al crescere della domanda.

Le tariffe erano, e sono, fissate dagli enti locali per evitare una competizione diretta che avrebbe potuto danneggiare la sicurezza.

Ma nel tempo questo quadro cambia radicalmente: al crescere del reddito, aumentano esponenzialmente sia la motorizzazione, che la congestione urbana, che la domanda di taxi. La congestione fa sì inoltre che le tariffe siano tarate anche funzione dei tempi di viaggio, oltre che della percorrenza.

I taxisti titolari di licenze ovviamente si organizzano per evitare che un eccessivo numero di licenze diminuisca i loro ricavi, e per difendere la loro condizione di produttori autonomi (al più costituiscono cooperative). Si accorgono anche che, se scioperano tutti insieme, sono in grado di rallentare molto il traffico di una città congestionata, riducendo la mobilità di un gran numero di persone.

Anche i decisori politici se ne accorgono, e preferiscono accontentare i numerosi taxisti, che sono altrettanti voti e possono creare problemi a tutto il traffico, che non difendere gli interessi di quelli che ritengono pochi utenti ricchi.

Aumentare le licenze, o introdurre qualche altra forma di competizione, diventa così difficilissimo. In Italia nelle maggiori città il numero di licenze per abitante è invariato da vent’anni, nonostante l’aumento dei redditi, che aumenta la domanda, e la crescita dei turisti, grandi utenti del servizio taxi. Inoltre la dotazione di taxi pro capite è molto più bassa di quella delle altre maggiori città europee, con eccezione di Berlino, dove però opera con successo UBER.

E la difficolta di aumentare le licenze non è solo un problema italiano: a New York per esempio l’aumento del numero delle licenze ha richiesto cinque anni di trattative.

In Italia, al contrario di molti altri paesi, anche la sola introduzione dell’obbligo di munirsi di strumenti per consentire il pagamento con carte di credito (POS) ha incontrato fortissime resistenze, e la stessa tassazione non avviene con verifiche dirette, ma in via sostanzialmente forfettaria. Non è nota alcuna indagine seria sui reali guadagni dei taxisti.

Come tutti i lavoratori autonomi, i tassisti sono molto restii ad una completa tracciabilità dei loro ricavi.

Ma anche l’utenza è cambiata, e una ricerca dell’Automobil Club milanese, pur datata (ultimi anni ’90), ha evidenziato che l’utenza occasionale è molto numerosa e molto sensibile alle tariffe. Quindi non più solo utenti ricchi. Chi deve recarsi in stazione o all’aeroporto con molti bagagli, o ha occasionalmente solo molta fretta, prende il taxi.

Molti utenti ricchi poi, con tariffe più basse delle attuali, non si servirebbero più dell’auto in città, usandola solo per viaggi extraurbani, alcuni anche noleggiandola e rinunciando alla proprietà del mezzo. Il fenomeno è già presente oggi, un abbassamento delle tariffe lo renderebbe più diffuso.

Ma che fare allora? Innanzitutto, aumentare il numero delle licenze per ridurre a livelli ragionevoli i tempi di attesa. Ma anche sulle attese medie manca una seria analisi.

Nella proposta attuale di un aumento del 20% delle licenze, i ricavi pubblici generati dalla loro vendita sono destinati a “compensare” i tassisti per l’aumentata offerta a parità di domanda, una formula certo peculiare, non presente in altri settori.

Ma sembrerebbe assai più ragionevole per ridurre le tariffe consentire anche ad imprese con dipendenti di operare, con economie di scala e con costi, profitti e imposte molto più controllabili.

I dipendenti ovviamente dovranno avere ogni tutela legale e sindacale, e qualificazioni adeguate. Il settore si “normalizzerebbe”.

Non solo: la fase successiva potrebbe essere quella di messa in competizione periodica di diverse imprese, con gare che selezionino non solo in base alle tariffe offerte, ma anche a parametri di qualità del servizio, quali presenze minime nelle periferie, informatizzazione sui tempi e costi previsti per i viaggi (come garantiva UBER, di cui di nuovo tra breve), e qualità, anche ambientale, dei veicoli impiegati.

Ovviamente la gara nei centri maggiori non dovrebbe dal luogo ad un unico concessionario, per evitarne una eccessiva forza contrattuale.

E comunque un meccanismo di gare tra imprese consentirebbe ai decisori pubblici di conoscere sia le potenziali “tariffe efficienti”, che i progressi qualitativi conseguibili.

Veniamo adesso a soluzioni del tipo UBER, che consistono in soggetti individuali con veicolo proprio, cui una piattaforma informatizzata garantisce il contatto con l’utenza e all’utenza garantisce le tariffe e la qualità complessiva del servizio (informazioni anticipate sul viaggio, veicolo, affidabilità dell’autista ecc.).

Questi soggetti sono formalmente “liberi professionisti”, possono decidere quanto tempo lavorare, e non godono di alcuna protezione sociale.

L’accusa, che ha avuto un buon successo in Europa e anche parzialmente nel resto del mondo, è che si tratti di un rapporto di lavoro subordinato “mascherato”.

Su questo problema è difficile pronunciarsi, ma è certo che il risultato di modelli gestionali del tipo UBER è stato quello di una sensibile riduzione delle tariffe e di un altrettanto sensibile aumento della qualità del servizio. Cose che hanno inciso drammaticamente sulla competitività dei servizi di taxi preesistenti, provocando forti resistenze ovunque.

E’ legittimo avere almeno un dubbio sul fatto che abbia prevalso la protezione degli interessi dei tassisti, per le ragioni già viste, più che la protezione dei lavoratori di UBER e soprattutto degli utenti.

Pochi infatti sono sorti a difendere gli utenti, anche se il sistema permette per esempio a lavoratori sottooccupati da accedere ad una ulteriore forma di reddito.

Comunque, una soluzione più che ragionevole di compromesso non sarebbe stata certo la proibizione a UBER (o aziende simili) di operare, ma al più l’obbligo di assumere i conducenti, garantendo loro le tutele sociali corrispondenti.

Ma questo avrebbe aperto la strada all’ingresso di società private con salariati, soluzione ritenuta comunque inaccettabile dai tassisti attuali, soggetti individuali e autonomi.

Un’altra forma presente in Italia è l’autonoleggio con conducente (NCC), con tariffe a tempo invece che a percorrenza. Formalmente dovrebbero essere a chiamata da autorimessa, ma i tassisti lamentano che spesso farebbero loro concorrenza in strada e opererebbero fuori dalle amministrazioni che rilasciano le licenze, e questa questione si trascina da anni  (in realtà un po’ di concorrenza agli utenti giova).

Una argomentazione sul livello di monopolio di cui godono i tassisti nel sistema attuale italiano riguarda i prezzi raggiunti dalle licenze esistenti, che sono liberamente scambiabili sul mercato.

Questi prezzi nelle maggiori città possono raggiungere quelli di un appartamento medio.

I rappresentanti dei tassisti affermano che non si tratti di rendite di monopolio, ma di una forma di fondo pensioni privato, in assenza di quello pubblico.

Questa argomentazione è funzionale a difendere la loro ferma opposizione a qualsiasi provvedimento che aumenti la competizione nel settore.

A questo fine dichiarano spesso anche che il loro è un servizio pubblico regolamentato.

Ma questo argomento, in sé motivato, non giustifica affatto che non sia utile aprire il settore a forme, sempre regolamentate, di competizione, come avviene per la messa in gara di servizi urbani di autobus.

Anche qui è difficile entrare nel merito, ma rimane il fatto della scarsa trasparenza che concerne sia ricavi reali che molti aspetti della qualità dei servizi attuali del settore, trasparenza che sarebbe davvero aumentata se le amministrazioni locali dovessero gestire impresi di taxi in competizione, invece di una pletora di operatori singoli.

Per concludere, vediamo le prospettive tecnologiche che potrebbero contribuire a superare la situazione disfunzionale e statica ereditata dal passato.

La più ovvia è l’informatizzazione del settore, cui si è già accennato, spinta fino alla creazione di servizi condivisi da più utenti su percorsi simili, in cui ciascun utente è informato alla chiamata del costo del tragitto (che sarà inferiore a quelle di un’utenza singola) e dei tempi stimati di viaggio e di attesa (che saranno lievemente superiori). La geolocalizzazione satellitare dei veicoli e delle condizioni di traffico consentirebbe previsioni sufficientemente accurate.

Anche la sola prospezione di soluzioni di questo tipo, particolarmente semplici per aeroporti e stazioni, è stata fonte finora di forte opposizione.

Appena più remoto è lo scenario di veicoli automatici, privi di conducente (e già in servizio sperimentale in alcune città statunitensi e cinesi). Gli ostacoli qui non sono tecnologici: i tempi di reazione a imprevisti dei sistemi automatici sono molto più rapidi di quelli umani, e l’intelligenza artificiale qui gioca già un ruolo essenziale (’AI è in grado di apprendere e di migliorarsi con l’uso, quindi di aumentare la sicurezza).

Gli ostacoli a questa tecnologia oggi sono essenzialmente normativi: in caso di incidenti (anche se rari, sono statisticamente inevitabili) è controversa l’attribuzione di responsabilità. Ma c’è da credere che il problema si risolverà, dati i rilevanti interessi in gioco.

Sistemi automatici di taxi a propulsione elettrica potrebbero avere costi d’uso davvero bassissimi, avendone eliminato le tre componenti maggiori: l’autista, le imposizioni fiscali sui carburanti, e l’ammortamento del veicolo (questo già ora suddiviso tra molti utenti, al contrario del caso della proprietà individuale).

Soprattutto nei contesti urbani più congestionati, un servizio taxi molto più economico e meno inquinante dell’attuale potrebbe dissuadere davvero molti a rinunciare all’auto individuale, liberando anche spazi urbani oggi invasi da parcheggi sconfinati.

C’è da sperare che le resistenze della categoria, oggi politicamente quasi insuperabili, non arrivino anche a bloccare anche questo tipo di innovazione.