2 settembre 2024

di Marco Ponti

Le politiche europee dei trasporti: cosa si è fatto e cosa si poteva fare

Quando prendiamo un aereo o un treno tocchiamo con mano, ma senza saperlo, molte conseguenze dirette di politiche europee (o della loro mancanza): sia l’aereo che il treno dovrebbero costare di più, perché in realtà altri stanno pagando per noi (nel caso dell’aereo, per i danni ambientali).

Invece se andiamo in autostrada in macchina dovremmo pagare di meno.

Nelle città muoversi con i mezzi pubblici potrebbe costare di meno (ai contribuenti o ai passeggeri), con migliori norme europee sulla concorrenza. 

In compenso grazie all’Europa l’aria che respiriamo è meno inquinata dalle automobili di quella che c’era vent’anni fa, e abbiamo pagato noi per pulirla.

E adesso per i cambiamenti climatici si dovrebbero colpire settori diversi da quello dei trasporti, cioè dove costa meno intervenire.

Vediamo per semplicità le quattro aree che risultano le più importanti per le politiche europee:

– le liberalizzazioni, cioè la diminuzione dei monopoli pubblici o privati nel settore,

– le infrastrutture (strade, ferrovie, ecc.)

– l’ambiente, che riguarda sia la salute che i cambiamenti climatici,

– la socialità, ovvero a chi toccano i costi e a chi i benefici delle varie politiche

Le liberalizzazioni

La creazione di un grande mercato concorrenziale è forse l’obiettivo su cui l’Europa punta maggiormente per la sua crescita economica.

Dove prevalgono operatori privati, cioè nei servizi di trasporto stradali di merci e passeggeri, nel settore aereo ed in quello dei trasporti marittimi, c’è un buon livello di concorrenza.

Ci sono solo eccezione minori o al di fuori del controllo europeo, come il rischio che i grandi operatori mondiali dei trasporti marittimi si mettano d’accordo e riducano la concorrenza.

L’azione europea invece ha agito con grande efficacia nei trasporti aerei all’interno dell’Europa: l’arrivo inaspettato delle compagnie “low-cost” ha abbassato moltissimo le tariffe per tutti gli utenti del modo aereo, fino a mettere in crisi diverse compagnie “full-cost” (tra cui l’Alitalia, sempre poi salvata con soldi pubblici). Ma, come vedremo, qui l’Europa non ha protetto l’ambiente.

I servizi aerei intercontinentali si basano su accordi tra nazioni che di fatto limitano la concorrenza. E per questi servizi, una maggior liberalizzazione gioverebbe agli utenti, anche a costo di qualche danno per le compagnie aeree europee (che però sarebbero più stimolate ad abbassare i costi).

L’azione europea è stata efficace anche per liberalizzare i servizi di autobus di lunga distanza, usati da moltissimi degli utenti a più basso reddito, soprattutto studenti ed extracomunitari. Il settore era bloccato perché le ferrovie temevano la concorrenza.

Anche il mercato di automobili e camion è nel complesso concorrenziale, ma adesso stiamo rischiando di avere forti tasse sulle macchine elettriche cinesi (molto meno costose di quelle europee), tasse che, oltre a danneggiare gli utenti, rallenterebbero la riduzione dell’inquinamento.

Una macchina elettrica cinese costa circa 10.000€, da noi circa il triplo. Per forza se ne vendono poche.

Inoltre, sembra comunque impossibile riconquistare il primato tecnologico nelle batterie, ormai perduto.

E nel caso italiano gli aiuti pubblici alla Fiat (oggi Stellantis) sono costati molti soldi ai contribuenti, per cui non convincono molto i lamenti per i sussidi alle macchine cinesi.

Per la concorrenza tra treno e strada, nel trasporto merci si parla anche di consentire camion più pesanti, come nei paesi scandinavi, che sono molto attenti all’ambiente.

Si chiamano “gigaliner”, cioè camion da 60 tonnellate contro le 44 attuali.

A parità di merci trasportate, l’uso di camion più grandi riduce i danni ambientali, la congestione, ed i costi di trasporto (portare con due camion più grandi quello che oggi ne richiede tre costa meno, e fa meno danni ambientali). Si faciliterebbe anche l’elettrificazione dei veicoli, dato il peso delle batterie.

Ovviamente ci sono vivaci reazioni da parte degli interessi ferroviari, che temono di perdere traffico. Questi interessi sono anche privati: i fornitori delle ferrovie (treni, infrastrutture) sono privati.

Comunque, un quadro molto diverso vien fuori per i settori dove prevale la proprietà pubblica: ferrovie e trasporti urbani.

Per le ferrovie c’è qualche problema tecnico per avere concorrenza: è complicato separare la gestione dalla rete ferroviari dai treni che ci passano su (la fornitura di energia e la marcia dei treni devono far capo alla rete, diversamente da quel che succede sulle strade).

Ma è complicato anche per nuove imprese cercare di far concorrenza a quelle esistenti, che sono pubbliche come le reti su cui corrono i treni.

Ci sono seri rischi di interventi pubblici contro i nuovi arrivati.

In Italia per l’Alta Velocità si è dovuto intervenire contro le Ferrovie dello Stato (FSI) in difesa del nuovo arrivato Italo, un privato, perché veniva danneggiato da FSI.  

Comunque, i difensori delle imprese monopolistiche hanno fallito due volte: una prima volta non riuscendo a produrre servizi competitivi se non con moltissimi sussidi per i servizi, e con nuove linee di Alta Velocità tutte pagate dagli Stati. E comunque nonostante questi sussidi non sono riusciti a spostare traffico dalla strada alla ferrovia (solo un po’ di passeggeri in meno in aereo).

Hanno fallito una seconda volta dalla dimostrazione pratica che, se si vuole la concorrenza, questa può funzionare benissimo anche nei servizi ferroviari.

Lo confermano gli ottimi risultati della concorrenza nell’alta velocità in Italia e Spagna, del settore merci in tutta Europa, e dell’affidamento in gara dei servizi ferroviari locali in Germania, che ha fatto risparmiare molti soldi ai contribuenti.

Tuttavia, la concorrenza nelle ferrovie in Europa rimane ancora limitata.

Per i trasporti pubblici locali (TPL) si parla di concorrenza solo parziale, cioè dell’affidamento dei servizi per un certo numero di anni mediante delle gare tra chi offre migliori servizi o chiede meno sussidi. Sussidiare i trasporti pubblici in città giova all’ambiente e riduce la congestione del traffico, anche se spesso i benefici vanno ai ricchi che vivono nelle aree centrali.

Il quadro europeo è un po’ più favorevole che per le ferrovie (vi sono meno ostacoli all’arrivo di nuove imprese).  

Ma questo non vale per l’Italia, dove l’avversione per le gare è fortissima, si veda il caso dei balneari. 

Nelle maggiori città italiane gli operatori son sempre gli stessi, a volte molto inefficienti (si veda quelli romani dell’ATAC), e sempre costosissimi in termini di sussidi, che sono superiori al 50% dei costi di produzione, a Roma e a Milano più di un milione di euro al giorno.

Abbiamo detto che i sussidi al TPL sono giustificati. Ma non è giustificato il fatto che i sussidi non si possano ridurre scegliendo con le gare le imprese più efficienti.

In particolare, proprio dove i trasporti pubblici sono più usati, cioè nelle città più grandi, in Europa la concorrenza non c’è, nonostante le ripetute raccomandazioni della Commissione Europea.

Di fatto, dominano grandi imprese pubbliche che politicamente non possono fallire.

E senza concorrenza non ci sono incentivi al progresso tecnologico.

Per esempio, informatizzando l’incontro tra domanda e offerta, in modo da ridurre i tempi di attesa e di viaggio, anche modificando in tempo reale i percorsi dei mezzi.

Ma innovazioni importanti possono esserci anche nella gestione delle imprese, come per esempio è successo in modo del tutto inaspettato con la liberalizzazione del settore aereo.

Le infrastrutture

La politica europea vent’anni fa ha promosso una serie di “corridoi europei” (TEN-T), quasi tutti ferroviari per ragioni ambientali, ma decisi dai singoli paesi attraversati.

Ma si è capito subito che era una scelta poco sensata, quella di tracciare sulla carta geografica lunghissime linee più o meno rettilinee ignorando la domanda di trasporto, che certo non ha niente a che fare con la geometria.

La vicenda poi ha preso dimensioni grottesche, al punto che l’intero elenco di opere ha dovuto essere cancellato una quindicina di anni fa (si erano superate le centinaia di progetti).

Ma si è perseverato (diabolicamente, si può dire) con la stessa logica, definendo adesso solo nove nuovi corridoi, ma ancora semi-rettilinei.

Per dare un’idea dall’insensatezza di questi, uno collega Helsinki (Finlandia) con La Valletta (Malta), e la tratta italiana si biforca poi fino a Palermo, su nostra richiesta, per poterci mettere il ponte sullo Stretto.

Questi corridoi son di nuovo quasi esclusivamente di tipo ferroviario, cioè con gli investimenti interamente a carico delle casse pubbliche, e questo ha fatto sì che la loro realizzazione proceda a singhiozzo, in funzione dei soldi che man mano sono disponibili.

Non si tratta però di un male assoluto: molte tratte avrebbero un traffico insufficiente a giustificare la spesa, data la logica insensata con cui sono state definite.

E anche se questi nuovi corridoi ferroviari fossero tutti realizzati, sposterebbero poco traffico via dalla strada (o dall’aereo), quindi i benefici ambientali rimarrebbero modesti, nonostante costino carissimi alle casse pubbliche.

In particolare, per difendere l’ambiente, come vedremo, è molto meglio colpire direttamente gli inquinatori, cioè i veicoli, che non le infrastrutture.

Anche per pagarle, i modi decisi dall’Europa sono confusi e contraddittori.

Si può pagarle solo in due modi: o direttamente con i soldi pubblici, cioè con le tasse che pagano tutti, o farle pagare a chi le usa, con dei pedaggi.

Per le ferrovie lo Stato paga tutto, per porti ed aeroporti ci sono sistemi misti, per altri (autostrade a pedaggio) pagano quasi tutto gli utenti (escluso in Germania), per altri ancora (le strade non a pedaggio, cioè la maggioranza) pagano gli utenti con le tasse sulla benzina.

In teoria è meglio che le infrastrutture le paghino gli Stati, perché così saranno utilizzate al massimo.

Se però i soldi pubblici sono scarsi, occorrerebbe farle pagare di più a chi le usa in modo ragionato, per evitare di avere infrastrutture nuove, e quindi con alte tariffe,  poco utilizzate, e infrastrutture più vecchie, e quindi già pagate, con troppo traffico, cioè in congestione.

Sistemi tariffari noti come “in due parti” potrebbero essere una soluzione di compromesso accettabile (ma che è impossibile dettagliare qui).

Le infrastrutture per cui si paga ad usarle (autostrade, porti e aeroporti) sono spesso date in concessione a imprese private, assumendo che queste siano più efficienti nel gestirle di imprese pubbliche, che spesso sottostanno ai capricci della politica, soprattutto assumendo troppa gente.

Però occorrono sempre dei “regolatori” pubblici, perché le infrastrutture sono dei monopoli, nel senso che possono avere pochissima concorrenza.

Non si può costruire un’autostrada di fianco ad un’altra per fargli concorrenza, quindi tariffe libere sarebbero troppo alte. Ma si può affidarla a un privato con una gara ben fatta, che assicuri che non si possano derubare gli utenti con tariffe troppo alte, né fare scarsa manutenzione.

Ma anche la regolazione europea non sembra molto razionale.

Alcune concessioni sono affidate a dei privati con meccanismi di gara poco trasparenti ed efficaci (molte autostrade a pedaggio, ed alcuni porti ed aeroporti).

In particolare, i casi dell’affidamento a privati di concessioni autostradali in Italia ed in Francia han dato luogo a moltissimi problemi, tanto che sono state poi ri-pubblicizzate a caro prezzo.

Altre concessioni invece sono interamente pubbliche, come le reti ferroviarie (affidate alle stesse imprese pubbliche che fanno andare i treni, e con concessioni lunghissime).

Infine, le strade non a pedaggio, che sono di gran lunga le infrastrutture di trasporto che servono più traffico, sono ovviamente pubbliche.

A volte possono soffrire di scarsità di soldi per la manutenzione, perché i proventi delle tasse sulla benzina non sono destinati, nemmeno per una parte, alle infrastrutture stradali.

In Italia in particolare la manutenzione delle strade ordinarie è molto insoddisfacente.

L’ambiente

L’Europa si è mossa con decisione in due direzioni, per il segmento più inquinante del settore, quello del trasporto stradale merci e passeggeri.

Ha definito limiti via via più stretti per le emissioni inquinanti (E1, 2, 3…E6), e incoraggiato tasse altissime sui carburanti in tutti i paesi. Sono tra le più alte del mondo, due terzi dei prezzi alla pompa.

Questo fino al punto che secondo una ricerca molto approfondita del Fondo Monetario Internazionale (“Getting the prices right”) in Europa camion e macchine pagano per la gran parte dei costi ambientali che generano, e comunque certo più che in altri settori inquinanti, e in altri paesi del mondo, con poche eccezioni.

Recentemente l’Europa ha anche definito due altre misure: l’azzeramento totale delle emissioni nocive entro il 2050, e la proibizione di vendere veicoli stradali a benzina entro il 2035.

Ha anche recentemente definito il “costo sociale” delle emissioni di CO2, che provoca il riscaldamento globale.

È una grandezza indispensabile per valutare se i costi delle politiche ambientali sono compensati dai benefici che si ottengono. Però lo hanno fatto con un metodo particolare, che porta a valori molto più alti di quelli che si usano nel resto del mondo.

Il che può portare a politiche ambientali eccezionalmente severe, soprattutto tenendo presente che l’Europa inquina in proporzione molto meno di Stati Uniti e Cina.

Comunque, per l’ambiente altre cose non sono positive.

Innanzitutto, è meglio, e più giusto, far pagare agli inquinatori che non stabilire standard, che costringono tutti a cambiar macchina, e quindi piacciono molto ai costruttori.

“Chi inquina paghi” (“polluters pay”) è un principio ambientale fondamentale.

Poi quando si è deciso di elettrificare le automobili, anche sussidiando l’acquisto dei veicoli, occorreva negoziare con l’industria automobilistica che si producessero veicoli a basso costo, in modo sia da accelerarne l’introduzione in massa, sia di consentire anche ai meno ricchi di comprarle.

Oggi i veicoli elettrici sul mercato costano molto nonostante i sussidi, anche perché hanno moltissimi accessori da veicoli di lusso, spesso poco usati.

La scommessa, che è fallita, di spostare il traffico dalla strada al treno, dovrebbe convincere per l’ambiente sarebbe meglio puntare di più sull’elettrificazione accelerata di camion e macchine, anche aprendo alla concorrenza cinese, che fa macchine a batteria a prezzi che sono la metà di quelli europei.

E la concorrenza cinese spingerebbe anche i produttori europei verso modelli più economici.

Inoltre, ormai l’integrazione internazionale in questo settore è molto spinta (molte marche europee producono auto in Cina, e viceversa), per cui una guerra di dazi avrebbe risultati incerti.

Però l’Europa non ha fatto nulla per il trasporto aereo, che inquina poco in assoluto, ma molto per ogni passeggero trasportato. I costi dell’inquinamento qui sono pagati da tutti, non da chi viaggia.

Infine, oggi il settore dei trasporti ufficialmente non è sottoposto al meccanismo europeo di tassazione noto come ETS (Emission Trading System), ma sembra lo sarà dal 2027.

Cioè, si avrà finalmente una generalizzazione del principio ambientale “chi inquina paga”. Ma i trasporti (salvo gli aerei) pagano già molto di più di altri settori inquinanti, e questo colpisce oggi anche categorie a reddito medio-basso.

Il sistema ETS, che sarebbe complicato spiegare, è molto efficiente, consentirà un approccio meno arbitrario dell’attuale, che vede fortissime disparità tra settori economici, alcuni dei quali sono addirittura sussidiati, come l’agricoltura, anche se c’è il rischio di forti resistenze politiche da parte di chi finora ha pagato poco o niente.

La socialità

Di questo tema non si occupano direttamente  le politiche europee, tuttavia è importante per molti aspetti, anche di accettabilità politica di provvedimenti indirizzati ad altri scopi, come abbiamo visto per l’ambiente.

Possiamo fare una premessa, e considerare due problemi.

La premessa è che è necessario misurare gli impatti sulle diverse classi sociali delle varie politiche, e anche degli investimenti.

Questo oggi si può fare, e non è particolarmente costoso, ma non si fa. È il malinteso “primato della politica”.

L’analisi degli impatti sociali dovrebbe rientrare tra quelle raccomandate, oltre alle valutazioni economiche, per evitare un uso “di comodo” di motivazioni sociali per giustificare politiche ed investimenti spesso di dubbia utilità (si consideri per esempio che molti investimenti costosissimi di nuove linee ad Alta Velocità del PNRR italiano sono stati giustificati da motivazioni sociali per lo meno fantasiose).

Il primo dei problemi riguarda il trasporto di lunga distanza più usato dalle categorie a più basso reddito: i servizi di autobus, che sono lenti e scomodi.

Questi, oltre a non essere sussidiati, pagano tutte le tasse sulla benzina e i pedaggi autostradali, mentre altri modi di trasporto usati da categorie con un reddito medio più alto sono molto sussidiati.

Questo è vero in particolare per i trasporti locali (che nelle aree urbane centrali sono usati soprattutto da impiegati), e quello ferroviario di lunga distanza e soprattutto di alta velocità.

Non sembrano esserci giustificazioni a questa disparità.

La seconda questione riguarda l’elettrificazione delle automobili, che, come abbiamo già visto, sembra che oggi possa riguardare solo i redditi alti (spesso definibili come “radical chic”).

Considerato che spostare gente verso i trasporti pubblici sembra molto difficile (se non per piccole quote), la gran parte delle persone in Europa continuerà ad usare l’automobile.

È indispensabile allora introdurre criteri di socialità anche nelle politiche di elettrificazione del settore, per evitare che i costi della transizione ambientale ricadano sproporzionatamente sulle categorie di reddito medio-basso.