10 gennaio 2023
di Francesco Ramella
Appartengono a “Ultima generazione”, un nome che è davvero tutto un programma, gli attivisti che la scorsa settimana hanno lanciato vernice sulla facciata del Senato a Roma. “Alla base del gesto” hanno dichiarato “vi è la disperazione che deriva dal susseguirsi di statistiche e dati sempre più allarmanti sul collasso eco-climatico e il disinteresse del mondo politico di fronte a quello che si prospetta come il più grande genocidio della storia dell’umanità”.
Sul loro sito i toni apocalittici si sprecano: “Noi non accetteremo di scendere docilmente all’inferno per il quale si sta lastricando la strada”, “stiamo andando verso il suicidio collettivo”, “la mancanza di cibo”, “la sesta estinzione di massa”.
Stefano Feltri, su Domani, ha scritto che: “Hanno ragione loro, i quattro attivisti di Ultima generazione che hanno imbrattato il Senato. Hanno ragione loro perché la politica italiana si indigna per un po’ di vernice e non per la traiettoria inesorabile della specie umana verso un destino di calamità e, forse, di estinzione.”
Sono toni che ricordano molto da vicino quelli del biologo Paul Ehrlich il quale, a fine anni Sessanta, prevedeva che, a causa della sovrappolazione e dell’inquinamento, il mondo sarebbe collassato in una decina di anni. Da allora la popolazione è più raddoppiata e le condizioni di vita medie dell’umanità hanno conosciuto uno straordinario miglioramento: la speranza di vita è aumentata da 56 a 73 anni, il reddito medio pro-capite è triplicato, la quota di popolazione mondiale che vive sotto la soglia di povertà assoluta è diminuita dal 50% al 10% (ed è risalita solo a causa del Covid).
E, soprattutto, sono toni e argomenti privi di fondamento scientifico. Il cambiamento climatico è un problema reale che si amplificherà nei prossimi decenni ma non tale da portare al collasso l’umanità. Come ha efficacemente raccontato lo scorso anno a The Atlantic Brian O’Neill, direttore del Global Change Research Institute e uno degli autori degli scenari socio-economici dell’IPCC, in tutte le simulazioni, anche quelle relative alle ipotesi di più elevato riscaldamento del pianeta, gli scienziati si aspettano un miglioramento delle condizioni di benessere medie sulla terra: la speranza di vita e il reddito medio continueranno ad aumentare e la povertà e la malnutrizione a diminuire anche se il cambiamento climatico rovinerà vite individuali e ucciderà singole persone, e potrebbe ridurre i tassi di sviluppo umano.
Inoltre, oggi sappiamo che gli scenari più pessimistici sono anche quelli più inverosimili. Aumenti di temperatura di 4 o 5°C, erroneamente descritti come il risultato del “business as usual” implicherebbero in realtà l’abbandono di politiche già in atto. Lo scenario più probabile per fine secolo è quello di un riscaldamento intorno ai 2,5 °C con possibili “sorprese” sia verso l’alto che verso il basso in considerazione dei cosiddetti feedback climatici di cui ancora non abbiamo una conoscenza accurata.
C’è da aggiungere che la narrazione apocalittica sul clima omette sempre un elemento centrale, quello dell’adattamento ossia della capacità di proteggersi dagli eventi climatici avversi. Nonostante alcuni fenomeni siano stati esacerbati dalle emissioni, il rischio climatico si è progressivamente ridotto nel tempo: nell’ultima decade è risultato pari a circa un centesimo rispetto a un secolo prima. E, ci dicono ancora gli scienziati che si occupano del clima, anche nei prossimi decenni le politiche di adattamento avranno un ruolo determinante ai fini del contenimento degli impatti del clima sulla vita delle persone.
In termini economici i danni da eventi estremi (solo in parte riconducibili al cambiamento climatico) rappresentano una quota intorno allo 0,2% del PIL mondiale che non è aumentata negli ultimi 30 anni.
È altresì infondata l’accusa di disinteresse e inazione di fronte al problema. Negli ultimi vent’anni le emissioni dei Paesi occidentali sono state ridotte significativamente (in Italia del 31%, nella UE del 24% e negli Stati Uniti del 16%) mentre quelle di India e Cina sono cresciute di oltre il 150%.
Tale evoluzione ha fatto sì che dal 1990 a oggi il peso delle emissioni europee sul totale mondiale sia diminuito dal 17% al 7% e quello dell’Italia dal 2% all’1%.
Il futuro del clima del pianeta dipenderà quindi sempre meno da quello che faremo a casa nostra. Oltre al finanziamento nel breve termine di interventi di riduzione delle emissioni nei Paesi a minor reddito che sono molto meno costosi di quelli locali, il contributo più rilevante che può venire dall’Italia e dall’Europa è quello dell’accrescimento della conoscenza e della innovazione che portino a ridurre, come peraltro sta già avvenendo, i costi della produzione di energia decarbonizzata e quelli della cattura della CO2 dall’atmosfera. Il sovranismo climatico, come quello economico, è al contempo inefficiente ed inefficace come sembra indicare chiaramente un’analisi delle politiche volte ad azzerare le emissioni continentali al 2050: i costi da sopportare sono pari a dieci volte i benefici attesi.
Ma, probabilmente, per gli attivisti di Ultima Generazione si tratta di un dettaglio trascurabile: un loro tweet di qualche giorno fa recita così: “A parità di produzione, un impianto rinnovabile impiega il quadruplo dei lavoratori di un impianto fossile”. Impiegare il quadruplo dei lavoratori implica, a parità di altre condizioni, dover sopportare un costo proporzionalmente più alto sottraendo così queste risorse a tutti gli altri possibili impieghi.