11 marzo 2025

di Marco Ponti

Certo, nei media, soprattutto in televisione, esternalizzazioni (specie intese come subappalti) e delocalizzazioni sono considerate pratiche legate alla smisurata avidità dei padroni, che antepongono il profitto alla tutela dei lavoratori.

In particolare, il subappalto è un modo per far lavorare la gente in nero e senza sicurezza, perché ditte piccole, o pseudo-cooperative, hanno meno controlli, e sono meno sindacalizzate.

Le delocalizzazioni fanno perdere posti di lavoro (e spesso la tesi è: nonostante l’impresa fosse in attivo, cioè per poter fare non normali profitti, ma extraprofitti…). Famiglie intere e attività indotte rimangono senza lavoro, magari dopo molti anni di onesto impegno.

Tutte queste cose a volte sono vere, ma ne vanno visti anche degli altri aspetti, regolarmente ignorati, e di segno sociale opposto.

Incominciamo dai subappalti, cioè dalle esternalizzazioni. Quando le produzioni diventano più complesse e tecnicamente avanzate, si specializzano. E molte attività non possono essere prodotte con continuità. Si pensi alla manutenzione di apparecchiature complesse, o la gestione di servizi informatici, o anche solo le pulizie periodiche di impianti, o produzioni di parti particolari.

Se fossero prodotte internamente (“in house”), come era possibile quando le specializzazioni della manodopera erano molto minori, non c’era un problema della loro sottoutilizzazione. 

Ma sarebbe drammatica oggi: gli addetti e le apparecchiature delle attività periodiche appaltate all’esterno ruotano tra diverse imprese, quindi non solo sono incentivate a specializzarsi, ma le loro risorse vengono pienamente utilizzate.

Questo abbassa in modo radicale i costi di produzione delle imprese che “esternalizzano”.

In un contesto molto competitivo, quale è quello italiano di medie-piccole imprese, a costi inferiori corrispondono prezzi inferiori.

A chi interessano prezzi inferiori, più ai ricchi o più ai poveri? E imprese più efficienti garantiscono anche di più l’occupazione.

Certo i comportamenti illegali delle imprese minori che abbiamo ricordato vanno combattuti con ogni mezzo, ma questo è davvero un altro discorso, non si può buttare il bambino con l’acqua sporca.

Un discorso del tutto analogo, ma molto più rilevante sul piano della socialità, riguarda le delocalizzazioni all’estero.

E proprio la ricerca di manodopera a costi più bassi deve essere vista per quello che è realmente: comporta maggiore occupazione, maggiori salari, ed in genere migliori condizioni di lavoro, per lavoratori che per definizione guadagnano meno dei nostri.

Non occorre ricordare l’internazionalismo proletario (o il pensiero di Trozky) per riconoscere che questa ridistribuzione del reddito è socialmente condivisibile: nelle località (e nei paesi) verso cui la delocalizzazione avviene festeggiano.

E noi comunque abbiamo anche reti di protezione sociale per chi perde il lavoro non comparabili a quelle di paesi più poveri.

Che alcune imprese poi delocalizzino anche se formalmente sono in attivo, va visto in un’ottica pluriennale: possono avere tecnologie in fase di rapida obsolescenza, o contesti concorrenziali che tendono a divenire poco sostenibili. Nessuno rinuncia a cuor leggero a situazioni con reali prospettive di profitto.

Altri motivi potrebbero essere regimi fiscali più favorevoli, o vincoli ambientali meno stringenti, o una combinazione di molti di questi fattori.

È fisiologico che le imprese, in un contesto concorrenziale, cerchino di ridurre in ogni modo lecito i propri costi di produzione. Questo garantisce la loro sopravvivenza, e tendenzialmente, come abbiamo già visto, riduce i prezzi per i consumatori.

E prezzi più bassi giovano più ai consumatori poveri che a quelli ricchi (gli economisti chiamano il fenomeno “utilità marginale decrescente del reddito”)

Poi se le imprese che se ne vanno vengono meno a patti che avevano stipulato (“scappano con i soldi”) questo va perseguito legalmente.

Ma, di nuovo, è tutto un altro discorso.