23 maggio 2022
di Francesco Ramella
Dopo un lungo confronto che ha visto contrapposte l’Italia e la Commissione europea, è arrivata la sentenza della Corte di Giustizia che condanna il nostro Paese perché inadempiente rispetto agli obblighi previsti dalla normativa comunitaria sulla qualità dell’aria. I valori limiti annuali di biossido di azoto sono stati “sistematicamente e continuativamente oltrepassati” dopo il 2010. È indubbiamente così: vi sono alcune aree urbane, in particolare nel Nord Italia, dove la media annuale di 40 microgrammi/m3 definita dalla direttiva UE viene ancora oggi superata.
L’oggettiva infrazione dovrebbe però essere inquadrata in un contesto più ampio. Vediamo prima di tutto qual è stata l’evoluzione delle emissioni di ossidi di azoto: dal 1970 ai primi anni ’90 la tendenza è all’aumento. Il massimo viene raggiunto nel 1992 con 2.234 tonnellate di NOx prodotti. Da quell’anno la tendenza di inverte e le emissioni si riducono sistematicamente: nel 2019 sono risultate pari a 627 tonnellate con una diminuzione di oltre il 70%. Una tendenza analoga si è registrata per tutti i principali inquinanti.
Facciamo dunque molto meglio del passato. E rispetto agli altri come ci comportiamo? A sorpresa, siamo i primi della classe in termini di emissioni pro-capite: ogni italiano nel 2019 ha prodotto in media 10,4 kg di NOx, il valore più basso di tutta la UE.
La forte riduzione delle emissioni ottenuta negli ultimi decenni ha avuto come effetto una progressiva diminuzione della concentrazione del biossido di azoto in atmosfera. Nel 2019 su un totale di 583 punti di campionamento presenti sul territorio nazionale, 552 ossia il 95% del totale, rispettavano i limiti di legge e 31 li sforavano: erano 67 nel 2019 e sono diventati 14 nel 2020.
A più riprese, l’Italia ha fatto presente quanto sopra descritto a Bruxelles. Così come ha evidenziato che, in particolare nel bacino padano, vi sono condizioni orografiche, morfologiche e meteorologiche più sfavorevoli alla dispersione degli inquinanti in atmosfera rispetto alle altre zone dell’Europa. Sono evidentemente fattori esogeni sui quali non è possibile intervenire con un’azione governativa (a meno di non voler riesumare la bizzarra idea del signore che a Portobello, per migliorare la ventilazione in Val Padana, propose di radere al suolo il passo del Turchino in Liguria).
E non è neppure mancato nelle istanze italiane un riferimento alle politiche promosse dalla Unione Europea a favore dell’uso delle biomasse e della maggiore diffusione delle auto diesel che hanno esse stesse ostacolato il processo di miglioramento della qualità dell’aria.
A Bruxelles, pur non contestandole nel merito, non hanno ritenuto di tenere in considerazione queste “attenuanti”.
Non è stato negato il nostro impegno a migliorare ma ci è stato detto che avremmo potuto e dovuto fare di più. È anche questo un dato di fatto: non tutte le politiche possibili per migliorare la qualità dell’aria sono state adottate.
La ragione di questa scelta è illustrata nei ricorsi dell’Italia: il raggiungimento dei valori limite entro la tempistica prevista dalla normativa avrebbe comportato costi insostenibili sul piano sociale ed economico. La Commissione, pur riconoscendo formalmente che il bilanciamento dei diversi interessi rientra nella discrezionalità delle autorità nazionali, ha sostenuto che il periodo di superamento dei limiti avrebbe dovuto essere “il più breve possibile”.
Quanto drastici avrebbero dovuto essere i provvedimenti da adottare per soddisfare la normativa sulla qualità dell’aria?
Una risposta qualitativa indiretta ci viene dall’esperimento involontario che è stato condotto due anni fa in occasione del primo lockdown che comportò una forte riduzione delle attività produttive, un crollo delle percorrenze in auto (-85%) e il dimezzamento di quelle dei veicoli pesanti.
Ebbene, neppure quei provvedimenti sono stati sufficienti per assicurare nella Pianura Padana il rispetto delle direttive europee.
Un’indicazione quantitativa della proporzionalità delle misure ci viene invece fornita da un’analisi di un provvedimento di divieto di circolazione dei veicoli a gasolio a standard Euro 5 o precedente nell’area centrale di Stoccolma condotta dai ricercatori dello Swedish National Road and Transport Research Institute. I risultati non sembrano lasciare molti dubbi: i benefici per la qualità dell’aria sono stimati essere pari a meno di un decimo dei costi sociali arrecati.
È possibile che nei prossimi anni la UE riveda ulteriormente al ribasso i vincoli in materia di qualità dell’aria. Alla luce della esperienza passata, sarebbe opportuno valutare più attentamente di quanto non sia stato fatto finora le implicazioni che tale decisione avrebbe per il nostro Paese.
Ed è forse necessario riflettere sulla ragionevolezza di avere una regolamentazione uniforme a livello comunitario: imporre a tutti gli stessi limiti è un po’ come chiedere di percorre nello stesso tempo i cento metri a due atleti uno dei quali corre in pianura e l’altro in salita.