25 novembre 2022
di Francesco Ramella
Sul Foglio di ieri Luciano Capone plaude alla decisione del Governo di ridurre lo sconto delle accise su benzina e diesel. Si tratta di un provvedimento di cui beneficiano tutti e quindi, in termini assoluti, di più i ricchi che hanno maggiori consumi. Se si vuole dare una mano temporanea per contrastare il caro energia, meglio concentrare le risorse sui più poveri. Il ragionamento è corretto ma ci sono due puntualizzazioni da fare. La prima è che le accise sono regressive; in termini percentuali pesano più sui poveri che sui ricchi: sul primo quintile la quota di spesa per i carburanti è pari al 5,4%, sul quinto al 3,8%.
La seconda è che il governo non sta “facendo il pieno a tutti”. Non siamo come l’Iran o il Venezuela dove il prezzo alla pompa è molto più basso del costo industriale e lo Stato si fa carico della differenza tra i due ammontari. Da noi è il contrario: per ogni euro che spendiamo per la benzina, oggi, 54 centesimi vanno a chi la produce e gli altri 46 allo Stato; per il gasolio la quota che spetta all’erario è il 38%.
Inoltre, le accise costituiscono solo una parte delle entrate fiscali del settore del trasporto stradale. Nel 2019 la tassazione dei carburanti ha generato risorse per un totale di 37 miliardi; le altre forme di prelievo sul possesso e l’uso degli autoveicoli portano gli introiti a oltre 75 miliardi, di cui circa 55 di prelievo specifico.
Considerato che la spesa pubblica per le strade si attesta da molti anni al di sotto dei 20 miliardi, si può ben dire che sono gli automobilisti a fare il pieno allo Stato e non il contrario.
Parte di queste risorse va senza dubbio a garantire condizioni migliori di mobilità a coloro che, per ragioni economiche o per condizione fisica o di età, non possono fare affidamento sull’auto. Ma a beneficiarne sono in misura rilevante coloro che vivono e lavorano nelle aree più centrali delle grandi città (e si spostano tra di esse con i treni ad alta velocità) e che hanno, spesso, redditi superiori alla media ma sopportano direttamente solo una parte del costo dei servizi. Nel caso dell’alta velocità il prezzo del biglietto copre i costi operativi ma non l’investimento iniziale; per i trasporti urbani è a carico dei contribuenti anche la maggior parte degli oneri di gestione del servizio.
Forse, non sarebbe una cattiva idea riflettere più attentamente sugli effetti distributivi delle attuali politiche tariffarie.
Vi sono poi diverse possibilità di intervento che potrebbero consentire di ridurre la spesa pubblica per i trasporti e rendere sostenibile nel tempo una riduzione del prelievo fiscale sull’auto.
Si dovrebbero innanzitutto abbassare i costi di produzione dei trasporti pubblici con l’adozione di meccanismi concorrenziali: nelle aree metropolitane del Regno Unito far viaggiare un autobus costa la metà che in Italia. A parità di costo unitario, si potrebbero tagliare i sussidi di due terzi senza ridurre i servizi.
Molti treni sulle linee secondarie hanno a bordo pochi passeggeri e potrebbero essere sostituiti da autobus. Analogamente, molti autobus, sui percorsi extraurbani e nelle città minori viaggiano semivuoti. Li si potrebbe sostituire con veicoli più piccoli e qualche volta basterebbe un taxi.
E, a proposito di taxi, se venissero liberalizzati l’offerta migliorerebbe e sarebbe resa accessibile anche a una parte di coloro che oggi non possono permetterseli.
Infine, soprattutto per le ferrovie, sarebbe auspicabile una rigorosa spending review che consentisse di distinguere i progetti che sono socialmente redditizi da quelli che non lo sono come la nuova linea AV da Salerno a Reggio Calabria o il raddoppio della Roma – Pescara.
Servirebbe però molto coraggio, probabilmente più di quello che ha portato all’aumento delle accise. Si tratterebbe infatti di scontentare, molto, gruppi ristretti di persone e di beneficiare, relativamente poco, una platea molto più ampia e poco visibile.