Eliminare le componenti anacronistiche delle accise sulla benzina” è uno degli impegni contenuti nel contratto di governo stipulato tra Lega e Movimento 5 Stelle. Secondo le stime dell’Osservatorio conti pubblici dell’Università Cattolica, l’attuazione della misura comporterebbe minori entrate per un ammontare di 6 miliardi.

Può forse essere interessante collocare tale cifra nel quadro complessivo del dare e dell’avere dello Stato e degli enti territoriali nel settore dei trasporti.

E’ probabilmente poco noto il fatto che il bilancio complessivo presenta un forte attivo per il settore pubblico che può essere stimato intorno ai 23 miliardi netti. Si registrano tuttavia condizioni assai diversificate per i singoli comparti: quello delle ferrovie ha un costo netto per la finanza pubblica di circa 9 miliardi, 6 miliardi vanno al trasporto pubblico locale e 2 miliardi ai porti e servizi di navigazione; il trasporto su strada assorbe risorse per circa 16 miliardi e ne trasferisce (al netto dell’IVA) oltre 55 (Tabella 1).

Si può altresì osservare come la proposta contenuta nel contratto abbia effetti sulla finanza pubblica analoghi a quelli conseguenti alle politiche adottate dai passati governi che si prefiggevano come obiettivo guida quello del riequilibrio modale ossia la riduzione della quota di domanda soddisfatta dalla gomma a favore della ferrovia e dei trasporti collettivi; tale obiettivo implica, da un lato, maggiori spese (la totalità degli investimenti e la parte prevalente dei costi operativi) e, dall’altro, minori entrate.

Su quest’ultimo fronte, a limitare i danni per la finanza pubblica è stata, paradossalmente, l’inefficacia delle politiche adottate; come già accaduto in passato, la pur modesta crescita economica degli ultimi anni ha trascinato un aumento della domanda di trasporto che, nonostante la “cura del ferro”, è risultata più accentuata per la gomma.

La principale motivazione di tale impostazione della politica dei trasporti, quella della sostenibilità ambientale, risulta sostanzialmente priva di fondamento come mostra, ad esempio, il caso della tramvia di Firenze. Negli scorsi giorni il Presidente della Regione, Enrico Rossi, durante la corsa di prova della linea 2, ha affermato che l’opera rappresenta il “più grande intervento di risanamento della qualità dell’aria realizzato in Toscana, con un impatto importantissimo in termini di risparmio di CO2”. Ora, la riduzione delle emissioni di anidride carbonica è stimata – forse con qualche ottimismo – pari a 12.000 t/anno. Molto, poco? Quasi nulla. Si tratta dello 0,03% del totale delle emissioni regionali (35 milioni di t) e dello 0,15% di quelle del settore dei trasporti (8 milioni di t). (Figura 1).

Oltre che quantitativamente marginale, la riduzione delle emissioni nel settore del trasporto tramite sussidi non è giustificata sotto il profilo dell’efficienza in quanto l’attuale prelievo fiscale internalizza già, con largo margine per i veicoli più recenti, i costi esterni ambientali.

Per lo meno ambigui e mai oggetto di serie valutazioni quantitative appaiono inoltre essere gli impatti distributivi dei trasferimenti ai trasporti collettivi: si pensi all’Alta Velocità, o al fatto che la gran parte dei trasporti pubblici è usata da studenti ed impiegati che si recano in aree centrali. Le categorie a più basso reddito (operaie soprattutto) espulse dalle aree centrali dalla rendita urbana, non possono, per ovvi problemi di densità localizzativa, che servirsi dei trasporti individuali.

L’unico rilevante beneficio collettivo derivante dal miglioramento dell’offerta di servizi collettivi è dato dalla (temporanea) riduzione della congestione, in particolare nelle maggiori aree urbane. Ma non è questa l’unica, né necessariamente la migliore strada perseguibile: l’eccesso di congestione rispetto al livello socialmente ottimale deriva infatti dal fatto che il prezzo da pagare per muoversi nelle aree più dense con l’auto è troppo basso. La via maestra da seguire dovrebbe essere quella dell’adozione/estensione dei sistemi di pedaggiamento.

Alla luce di quanto detto, è del tutto ragionevole ritenere che vi siano nel settore dei trasporti significativi spazi di riduzione della spesa: sia quella per investimenti – abbiamo un piano di più di 100 miliardi di nuove opere, per le quali non è nota alcuna valutazione né in termini economici né finanziari né di domanda di traffico – sia corrente.

Negli ultimi anni abbiamo assistito al consolidamento di un quasi-monopolista pubblico (FSI), che si sta integrando verticalmente ed orizzontalmente. Nel trasporto pubblico locale, una moderata riforma di maggiore apertura al mercato è sulla carta, ma finora effetti non se ne sono visti, e dopo 30 anni di tentativi anche qui i dubbi sembrano più che legittimi in particolare per la indisponibilità della quasi totalità delle amministrazioni locali a cedere la proprietà dell’azienda locale e consentire così il dispiegarsi dei benefici effetti della concorrenza: se i costi di produzione nel nostro Paese si allineassero a quelli degli operatori più efficienti a livello europeo, la spesa complessiva potrebbe ridursi almeno di un 30% e, a tariffe invariate, l’entità dei sussidi potrebbe essere quasi dimezzata.

Qualora ciò si avverasse, emergerebbero reali spazi per una riduzione del prelievo fiscale, regressivo, sui carburanti.

 

Tabella 1 – Stima della spesa netta annua per il settore pubblico dei trasporti in Italia


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Fonte: elaborazione su dati Conto Nazionale dei Trasporti

 

Figura 1 – Emissioni di CO2 nella Regione Toscana e riduzione stimata a seguito della realizzazione della tramvia di Firenze

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Fonte: elaborazione su dati ARPA Toscana

Francesco Ramella e Marco Ponti

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