
3 dicembre 2025
di Marco Ponti
“Se due o più imprenditori si trovano tra di loro, anche a pranzo, congiureranno contro l’interesse pubblico” scriveva un tale Adamo Smith, che da massimo lodatore del libero mercato era ben conscio delle resistenze a cui è esposto.
Ma anche la politica spesso non ama la concorrenza, che è faticosa da promuovere, diminuisce i profitti, e quindi le imprese smettono di essere amichevoli, e a volte anche i sindacati protestano. Gli USA mettono dazi che deprimono la concorrenza, ma anche l’Europa non scherza, fa solo meno chiasso.
Con i monopoli si sta molto più tranquilli, ma poi la crescita economica è dello “zero virgola”.
Anche l’ambiente dà fastidio a molti settori produttivi, inquinare in genere costa meno.
Negli USA per l’ambiente si affermano addirittura politiche negazioniste.
Per entrambi questi obiettivi pubblici essenziali tira un vento poco favorevole.
Vediamo lo scenario che si prospetta per la concorrenza nel settore dei trasporti (principalmente terrestri).
Iniziamo dalle infrastrutture, dove è possibile solo fare concorrenza negli affidamenti concessori, cioè “per il mercato”, non direttamente “nel mercato”.
Il settore non vede novità, dopo la ri-pubblicizzazione dell’impresa dominante AspI. Sui problemi del sistema tariffario torneremo con un articolo più analitico, qui basta ricordare che il ministro Salvini aveva prospettato una riforma molto interessante anche dal punto di vista della teoria della regolazione, ma le resistenze dei concessionari, forti dei contratti firmati, l’anno fatta rimandare a un futuro lontanissimo.
Nemmeno per le concessioni delle infrastrutture ferroviarie sono in vista novità, e dell’affermazione del ministro Padoa Schioppa, che aveva accennato a possibili affidamenti competitivi per la gestione, se ne è persa addirittura la memoria.
Ma le infrastrutture occorre anche costruirle, e anche qui la concorrenza potrebbe avere un ruolo importante, sia per i costi che per la qualità.
In Italia emerge la crescente dominanza di un’impresa a partecipazione pubblica, in un mercato che già era poco esposto alla concorrenza internazionale per ragioni sia tecniche che politiche. Forse non è lo sviluppo più auspicabile.
Né è auspicabile che le ferrovie acquistino il ramo ferroviario di un’impresa di costruzioni (Pizzarotti). Sarebbe un’ulteriore “integrazione verticale” di un’impresa che lo è già molto (infrastrutture con i servizi ferroviari, ma anche con servizi di autobus).
Per fortuna sembra che il governo abbia deciso di scorporare ANAS, cioè il settore stradale, che davvero aveva pochissime motivazioni tecniche e funzionali ad essere integrato con una società ferroviaria.
Il caso infrastrutturale più clamoroso di esplicita avversione alla concorrenza è tuttavia quello del ponte sullo stretto di Messina.
L’affidamento senza rifare la gara era possibile per la normativa europea solo se l’aumento dei costi, in termini reali, non superasse il 50% dell’importo del primo affidamento, e questo è apparso dubbio alla Corte dei Conti, non esistendo ancora un progetto esecutivo dell’opera, indispensabile per una stima realistica dei costi.
Una nuova gara avrebbe giovato non solo per minimizzare i costi, ma anche per verificare le tecnologie, dati i 15 anni trascorsi dalla progettazione originale, e le incognite intrinseche in un’opera così eccezionale.
Venendo ai servizi di trasporto, la novità più rilevante sembra l’avvento di un terzo attore nel settore ferroviario più redditizio, quello dell’Alta Velocità.
E si tratta di un attore “pericoloso”: entrerebbe con materiale rotabile a due piani, quindi con costi a passeggero trasportato di almeno un terzo inferiori di quelli attuali, con standard di confort appena di poco diversi.
Infatti sembra sia stato un ingresso fortemente osteggiato con i più svariati cavilli, al punto da renderlo persino dubbio.
Per inciso: è un mito che la concorrenza può agire solo nei servizi direttamente redditizi: per quelli sussidiati, cioè per tutti i servizi passeggeri non AV, basterebbe mettere a gara il livello dei sussidi richiesto alla mano pubblica per attirare molti new entrants.
Per fortuna nel 2026 sembra che questo divenga un obbligo europeo, anche se rimane inspiegabile perché non sia stata una prassi messa in moto in anticipo, in modo da “allenare” l’operatore monopolista nazionale ad un contesto competitivo.
La concorrenza fa bene anche all’incumbent, oltre che ai new entrants, come dimostra l’esperienza tedesca dei servizi regionali, in cui DB ha rivinto gare che aveva precedentemente perso, perché diventata più efficiente.
Quasi dimenticati sono stati anche gli accenni a possibili privatizzazioni nel settore fatte dal ministro Giorgetti.
Nonostante la raccomandazione fatta a mezza voce del presidente dell’Autorità regolatoria competente (ART), di iniziare dai servizi “a mercato” (AV e merci), FSI ha adombrato solo un possibile ingresso di capitali istituzionali nella costruzione di nuove linee AV, secondo il modello noto come RAB, cioè quanto di meno concorrenziale si possa immaginare.
Di fatto, rendite garantite, come abbiamo chiarito in un precedente articolo.
Il settore automotive concerne il modo di trasporto dominante, e certamente appare già molto concorrenziale nei servizi di autotrasporto merci e di autobus di lunga percorrenza.
Lo è anche nella produzione di mezzi di trasporto, apparentemente.
Tuttavia la concorrenza qui non sembra aver agito per ridurre i costi del segmento elettrico, che pure presenta potenzialità rilevanti avendo molte meno parti mobili che nei segmenti tradizionali.
Gli alti prezzi poi hanno ridotto la domanda e innestato una forte pressione per ottenere dazi europei sui veicoli elettrici cinesi, che certo hanno goduto di ampi sostegni statali. Ma non si può ignorare che i dazi riducono la concorrenza, alzano i prezzi delle produzioni interne, e diminuiscono gli incentivi ad innovare.
E per questo motivo non garantiscono nemmeno che la rincorsa tecnologica europea giunga a buon fine.
Veniamo infine ai servizi di trasporto locale.
La legge sulla concorrenza firmata durante il governo Draghi ha affossato ogni serio tentativo di mettere in gara le concessioni maggiori, perché non pone vincoli alla dimensione massima dei lotti (nessuno concorre per un’intera città contro una azienda posseduta dal comune concedente).
L’azienda milanese per esempio ha vinto un lotto a Parigi, ma per Milano il comune ha deciso per un lotto unico cittadino. La concorrenza forse va bene solo oltreconfine.
Ma la legge vanifica anche ogni serio tentativo di gara per tutti i livelli dimensionali: l’ente concedente dovrebbe dichiararsi insoddisfatto delle performances della propria azienda, per avere l’obbligo di mettere in gara la concessione. Una vera assurdità.
Solo per Roma la qualità del servizio offerto è parsa tale, che l’AGCM ha ottenuto, sembra, la sospensione dell’affidamento “in house”.
Tuttavia nulla è ancora certo, e sarebbe sufficiente che il comune bandisse una gara a lotto unico per scongiurare qualsiasi rischio di concorrenza credibile. Tra i costi di partecipazione e resistenze politiche e sindacali difficilmente si presenterebbero concorrenti, se non di pura facciata, come già successo in passato in altre località.
Il TPL appare comunque un settore blindato da “clausole sociali” molto stringenti. Tuttavia, anche qui, perché non provare? L’innovazione nei trasporti può presentarsi efficacemente nell’organizzazione dei servizi e nelle tecnologie, soprattutto di informatizzazione.
Per concludere, il caso Ryanair dovrebbe far scuola: il settore aereo europeo fu liberalizzato senza molte resistenze perché gli attori politici e gli incumbents erano sicuri che non sarebbe successo quasi nulla (la normativa rimaneva piuttosto vincolistica).
Invece vi fu una rivoluzione, organizzativa e di gestione delle flotte, tale che le tariffe medie per tutti i viaggiatori aerei si stima che si siano ridotte in media del 30%. Alcuni incumbents sono falliti, ma il settore è cresciuto in modo esponenziale, e senza problemi di sicurezza.
Ma forse nei trasposti terrestri si vola più basso.
