Narrazione e realtà della privatizzazione delle ferrovie britanniche
Non c’è forse altro argomento trasportistico che veda un così uniforme giudizio negativo come quello della privatizzazione delle ferrovie britanniche. Lo scorso 30 dicembre sul Fatto Quotidiano Pietro Spirito scrive di “conseguenze tragiche sulla sicurezza” e di “effetti nefasti che sono continuati” anche dopo il ritorno in mano pubblica della rete. Ora, l’incidente di Hatfield del 2000 citato da Spirito causò quattro vittime. Il disastro più grave fu quello di Ladbroke Grove l’anno precedente dove morirono 31 persone. Un evento gravissimo ma non unico. Sulle reti pubbliche europee ve ne sono stati di analoghi e finanche peggiori: nel 1998 a Eschede in Germania persero la vita 101 persone, a Santiago de Compostela nel 2013 vi furono 80 vittime, 32 morirono nell’incidente di Viareggio nel 2009, 33 a Siofok in Ungheria nel 2003 e 41 a Tempi in Grecia nel 2023. Se si analizza con obiettività e non facendo cherry-picking l’evoluzione della sicurezza delle ferrovie inglesi si scopre come in ciascuno degli anni successivi alla privatizzazione il numero di incidenti mortali rapportato al traffico complessivo è risultato essere inferiore a quello che sarebbe stato prevedibile ipotizzando che il trend di evoluzione del fenomeno in atto prima della riforma fosse rimasto inalterato.

E cosa dire degli sviluppi successivi? Nel 1994 la domanda soddisfatta dalle ferrovie britanniche era pari a 36 miliardi di passeggeri-km, valore pressoché identico a quello di mezzo secolo prima. Dopo la privatizzazione essa è cresciuta del 125%, più che in ogni altro Paese europeo fatta eccezione per la Svezia. In Italia, nello stesso arco di tempo, l’aumento è risultato pari al 25%.

Inoltre, in base ai dati di Eurobarometro, il Regno Unito si pone al sesto posto in Europa quanto a soddisfazione della popolazione per il sistema ferroviario, con un valore superiore a quello di tutti gli altri maggiori Paesi.

Ma non sono i prezzi dei biglietti molto più alti che in Italia e negli altri Paesi europei? Sì, fino a tre volte di più. Tale divario è dovuto al fatto che in Gran Bretagna il costo dei servizi è interamente a carico degli utenti mentre da noi – fatta eccezione per l’alta velocità – i sussidi pubblici coprono circa 2/3 dello stesso. In Gran Bretagna i sussidi sono stati progressivamente ridotti e tra il 2009 e il 2019 lo Stato ha ricevuto un contributo netto dagli operatori pari a 2 miliardi di sterline.
La vera critica che dovrebbe mossa al processo di privatizzazione è quella relativa ai costi di produzione che non sono stati significativamente ridotti. Difficile pensare che possano esserlo con la rinazionalizzazione auspicata dal partito laburista come rimedio per i prezzi dei servizi giudicati troppo alti, l’insufficiente qualità del servizio e per evitare il fallimento di alcune imprese, e il conseguente venir meno del vincolo di bilancio. Nel frattempo, sul versante della rete pubblica, si assiste all’esplosione dei costi di costruzione della linea AV tra Londra e Birmingham: dai 33 miliardi di sterline ipotizzati nel 2012 si è arrivati al doppio e probabilmente il consuntivo sarà ancora peggiore. Il monito di Margaret Thatcher: “Eurotunnel will not receive a penny from the public purse” è solo uno sbiadito ricordo.