26 maggio 2020

di Francesco Ramella

Con il turismo e la ristorazione, i trasporti sono il settore che ha subito il maggior sconvolgimento negli ultimi tre mesi. I provvedimenti adottati per limitare la diffusione del virus hanno fatto crollare la mobilità privata e hanno colpito duramente anche i trasporti collettivi: il loro principale pregio, la capacità di soddisfare gli spostamenti con un uso efficiente dello spazio, si è trasformato in un gravissimo difetto a fronte della necessità di garantire il distanziamento sociale. Nelle ultime due settimane, con l’allentamento dei vincoli più rigidi, la mobilità ha ricominciato a crescere. Quali scenari si prospettano per i prossimi mesi? E quali le politiche da adottare alla luce del mutato scenario?

Se guardiamo alla realtà quotidiana, per la stragrande maggioranza delle persone non vi saranno cambiamenti di sorta e si ritornerà alla situazione pre-COVID19 quando in Piemonte su cento spostamenti 85 venivano effettuati su auto o in moto.

La profonda recessione, l’inevitabile aumento della disoccupazione e la riduzione dei consumi causeranno una generalizzata diminuzione del traffico di persone e merci.

Nel caso dei trasporti collettivi, assumendo ottimisticamente che possano essere gradualmente rimosse le attuali misure di distanziamento, alla flessione della utenza correlata alla riduzione delle attività economiche si sommerà una minor propensione all’uso per il perdurare del timore del contagio. Vi è inoltre un altro fattore che si può immaginare porterà ad una contrazione permanente degli utenti rispetto allo scenario tendenziale. Nel periodo del lockdown abbiamo scoperto che non tutti gli spostamenti sono strettamente necessari e che, in molti casi, il lavoro e la didattica a distanza sono ugualmente produttivi. È ragionevole ritenere che a beneficiare maggiormente di questa possibilità siano studenti e impiegati nelle aree centrali delle grandi città che costituiscono il bacino d’utenza prevalente di autobus, tram e metropolitane.

Le ridimensionate prospettive di traffico, il quadro assai peggiorato di finanza pubblica e, non dimentichiamolo, una demografia stazionaria se non in declino, dovrebbero portare a un’attenta spending review sia dal lato degli investimenti in infrastrutture che da quello della fornitura dei servizi.

Nel primo caso si dovrebbero concentrare le risorse solo sugli investimenti che sono in grado di accrescere la produttività del Paese e che impattano poco sui conti pubblici in quanto capaci di ripagarsi almeno in parte grazie ai pedaggi e alle entrate fiscali. Una parte rilevante degli investimenti in ferrovie e metropolitane, compresa la seconda linea di Torino, interamente a carico della finanza pubblica e generatori di ulteriore spesa corrente, non rispondeva a questi criteri già prima della crisi e tanto meno potrà farlo nello scenario di domanda qui sopra delineato.

Viaggiare più comodi indebitandoci ulteriormente è un lusso che non possiamo più permetterci.

Vi sono, inoltre, ampi margini per ridurre i costi di produzione grazie alla privatizzazione delle imprese e la messa a gara dei servizi. Se GTT avesse un livello di efficienza analogo a quello delle imprese che operano nelle aree metropolitane inglesi, la città di Torino potrebbe ogni anno risparmiare non meno di cento milioni. E il livello di sussidi potrebbe essere ulteriormente ridotto se venisse applicato un sistema di pedaggio che coprisse buona parte della mobilità cittadina con conseguente acquisizione di una parte di domanda dall’auto e, al contempo, una riduzione dei costi di produzione grazie all’aumento della velocità di tram e autobus.

Quella che sembra mancare è la volontà politica di agire nell’interesse dei contribuenti per non perdere il consenso di gruppi di pressione minoritari ma coesi come i costruttori e gli addetti delle aziende pubbliche.

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