7 dicembre 2020
di Marco Ponti
Il problema della “giusta scala amministrativa” (Stato, regione, provincia, comune, quartiere) ovviamente non ha soluzioni univoche. Per ogni problema e per ogni contesto la soluzione efficiente può essere diversa.
Ma precisiamo subito che per eventi epocali, quale la presente pandemia, non c’è dubbio che il massimo centralismo decisionale è assolutamente necessario. E precisiamo anche che i comportamenti di molti amministratori regionali (non tutti) sono stati nei decenni passati molto discutibili, o peggio. Si son fatti la peggior pubblicità possibile.
Ma per una serie di settori di interesse pubblico emerge una indicazione tecnica abbastanza univoca: è la quantità di informazioni gestibili efficacemente, e le capacità decisionali che ne conseguono (cfr. il celebre “conoscere per decidere” einaudiano). Questo criterio, di derivazione regolatoria, può forse guidare l’assetto geografico-amministrativo migliore. La scala regionale da questo punto di vista può essere molto ragionevole.
Roma certo non può raccogliere e elaborare grandi flussi di informazioni, né tantomeno elaborarle per prendere decisioni in tempi ragionevoli su problemi locali. Province e comuni presentano rilevanti problemi di diseconomie di scala, se non per le aree metropolitane maggiori, e spesso le loro dimensioni amministrative di questi enti territoriali minori sono diventate anacronistiche.
Ma vi è un secondo aspetto, non meno rilevante, che concerne gli incentivi all’efficienza e alla responsabilizzazione. Oggi tali incentivi sono del tutto assenti, lo Stato interviene sempre ed ovunque come “pagatore in ultima istanza” (“residual claimant”), per cui gli incentivi all’efficienza per i politici locali sono debolissimi. Da qui il malgoverno delle risorse pubbliche è una conseguenza quasi automatica. Se una amministrazione regionale, oggi priva di una seria autonomia fiscale, spende male i soldi, può sempre dire ai propri elettori che lo Stato non glie ne ha dati abbastanza, che è discriminata per ragioni politico-partitiche ecc.. Certo l’autonomia fiscale e la conseguente autonomia nella spesa devono essere annualmente precedute da dei trasferimenti di soldi pubblici tali da perequare le “condizioni di partenza” tra regioni ricche e regioni povere.
Oggi prevale un atteggiamento perequativo basato su standard di servizi, invece che sulle risorse allocate: ma questo non incentiva l’efficienza, ed ignora il fatto che le priorità sociali possono legittimamente differire tra regione e regione, all’interno di un meccanismo democratico informato.
E vi è un terzo aspetto, strettamente politico, ma anch’esso riferibile al problema delle informazioni. La valutazione delle promesse dei politici a livello nazionale è problematica: tutti possono promettere tutto, contando proprio sull’impossibilità che gli elettori si ricordino e possano controllare risultati reali. A livello regionale le promesse sono molto più controllabili dai cittadini, come molto più semplice è ottenere le informazioni sui risultati ottenuti.
Ma vediamo un esempio concreto della distorsione operata dall’irresponsabilità finanziaria nei comportamenti regionali: la vicenda delle risorse per i trasporti pubblici (TPL). Chi scrive era allora consulente ministeriale sulle tematiche dei trasporti.
La Lega di Bossi già alla fine degli anni ’90 aveva fatto fortissime pressioni per ottenere l’autonomia regionale nel TPL, estesa anche all’uso delle risorse provenienti dall’amministrazione centrale. La ottenne. Il governo centrale stabilì quanti soldi dare a ogni regione (in base ad alcuni semplici parametri) e le regioni mostrarono molta soddisfazione per l’autonomia ottenuta. Poi però successe, come è normale per ogni settore, che vi furono tensioni sindacali e scioperi, nazionali e locali, per il rinnovo dei contratti di lavoro ecc..
Ovviamente questo ebbe conseguenze anche sugli utenti, a volte assai pesanti.
Allora gli amministratori regionali si accorsero che l’acquisita libertà gli costava cara in termini di consenso, e decisero che “si stava meglio quando si stava peggio”, e chiesero e ottennero che l’allocazione delle risorse ritornasse a Roma.
Il meccanismo era chiarissimo: in questo modo potevano dar colpa all’amministrazione locale, dicendo ai dipendenti “io per me vi raddoppierei gli stipendi, ma Roma non mi dà abbastanza soldi”, e lo stesso argomento funzionava benissimo anche per gli utenti che rimanevano a piedi.
Il risultato finale di questo secondo, rapido cedimento dello Stato centrale alle pressioni locali sembra essere stato davvero poco difendibile: oggi in Italia abbiamo servizi mediocri, ma costi di produzione tra i più alti d’Europa, e tariffe tra le più basse, cioè il massimo di deficit possibile. Non certo un risultato efficiente, ma politicamente molto gradito.