15 aprile 2024

di Marco Ponti

Da un articolo di Carlo Di Foggia sul Fatto, e dal capitolo IV-4 dell’Allegato al DEF 2024 emerge che il ministro dei trasporti Salvini vuole avviare una radicale riforma delle concessioni autostradali, accentrando nel suo ministero tutti i ricavi pagati dagli utenti, e mantenendo ai concessionari solo l’attività di gestione, cioè investimenti, manutenzioni, e riscossione dei pedaggi, ovviamente garantendone la redditività secondo i contratti di concessione vigenti.

Osserviamo innanzitutto che l’assetto attuale si è rivelato del tutto insoddisfacente, quindi a cambiare non c’è certo molto da perdere.

Infatti sin dall’origine è stato sbagliato affidare a privati delle infrastrutture, che sono da un lato “monopoli naturali”, quindi non apribili alla concorrenza se non per l’affidamento, e dall’altro hanno contenuti tecnologici modesti (sono di fatto normali strade a più corsie), per cui il contributo di “know how” privato è strutturalmente limitato.

Ma non solo: le concessioni erano squilibrate, con un soggetto, Autostrade per l’Italia (AspI) assolutamente dominante, con più della metà della rete e tre quarti dei traffici.

Questa concentrazione non solo ha creato un soggetto con trappo peso politico, cioè in grado di “catturare” il regolatore, ma è anche ingiustificato in termini di economie di scala, che vedono in circa 300km una dimensione efficiente (come correttamente osservato nell’allegato al DEF citato sopra).

Inoltre il sistema tariffario è stato correlato al recupero di tutti i costi, compreso quelli di investimento, quindi con un modello difforme da quello della rete ferroviaria, che recupera dagli utenti solo i costi di manutenzione che generano usando la rete. Una difformità inefficiente e mai spiegata.

E l’inadeguatezza del sistema è emersa subito, da un lato con una sostanziale incapacità del concedente pubblico a controllare le manutenzioni (per tutti, il crollo del ponte di Genova), e tariffe e profitti dei concessionari molto elevati, probabilmente molto al di là dall’ammortamento degli investimenti stessi.

Persino il soggetto indipendente creato per regolare i trasporti (ART) è stato impossibilitato per molti anni ad intervenire, nonostante i rapporti con i concessionari fossero divenuti una giungla di contratti con regole diverse.

Ma veniamo ora al nocciolo della proposta di separare le tariffe dagli investimenti: è condivisibile perché, per esempio, oggi una autostrada più recente vede tariffe molto più elevate di una vecchia già in parte ammortizzata, indipendentemente dai traffici che le percorrono.

Ne consegue che una tratta congestionata può costare molto di meno di una poco utilizzata, mentre è intuitivo che le tariffe dovrebbero distribuire i flussi di traffico in modo da minimizzare la congestione, cioè di utilizzare la rete nel modo più efficiente possibile (e si ricorda che la congestione aumenta molto anche i danni all’ambiente).

Anche dal punto di vista dell’equità, tariffe stabilite con criteri omogenei sarebbero più accettabili: perché mai un utente di due autostrade identiche dovrebbero pagare diversamente solo perché costruite in tempi diversi?

Molti di questi aspetti sono stati confermati da una recente simulazione tariffaria estesa a livello nazionale, effettuata con un modello di traffico promosso dal BRT onlus (un gruppo di ricerca non-profit) e dal Politecnico di Milano.

A parità di ricavi totali, tariffe legate ai soli costi di manutenzione e alla congestione aumentano il benessere collettivo e diminuiscono le emissioni, rispetto al sistema di tariffazione attuale. E tutta la rete viaria, compresa quella esterna alle autostrade, risulta meglio utilizzata.

Ma occorrerebbe poi tenere anche conto, in una riforma così radicale, di due altre realtà: oggi il traffico autostradale è principalmente di breve distanza, cioè interno ai confini ragionali (circa il 75%). In secondo luogo il documento ministeriale citato insiste correttamente sul fatto che attualmente la concorrenza per le concessioni agisce poco.

Per il primo fenomeno, sarebbe ragionevole coinvolgere il livello regionale nel gestire in modo unitario la viabilità, visto il ruolo che hanno assunto le autostrade. Perché avere le strade non a pedaggio con una manutenzione insufficiente per mancanza di risorse, e spesso livelli di congestione molto maggiore di quello delle tratte autostradali che servono i medesimi traffici? E questo si riflette anche sui fabbisogni di nuovi investimenti o di ampliamenti dell’esistente.

E se si vuole maggiore competizione occorrerebbe non solo evitare fusioni tra i concessionari esistenti, ma addirittura pensare a “spezzatini” del concessionario maggiore, AspI, oggi in mano pubblica, proprio sulla linea dei 300km come dimensione efficiente a cui abbiamo accennato.

Sarebbe una scelta anche molto coerente con una dimensione regionale.

Pensare che il Ministero dei trasporti abbia le informazioni e gli strumenti di decisione e di controllo per gestire e pianificare i problemi di mobilità regionale sarebbe poco sensato.

E una considerazione analoga vale anche per le risorse pagate dagli utenti con le tariffe: se la gran parte della mobilità su strada è oggi a livello regionale, con la fine dell’inutile e artificiale separazione tra la viabilità stradale ordinaria e quella autostradale, una centralizzazione spinta di risorse e decisioni sarebbe da evitare.

Anche perché il calo demografico non suggerisce fabbisogni importanti di investimenti a scala nazionale, ma essenzialmente di rinnovi e manutenzioni dell’esistente.