11 aprile 2022

di Francesco Ramella

Diceva Giulio Andreotti che esistono due tipi di pazzi: quelli che si credono Napoleone e quelli che vogliono risanare il bilancio delle ferrovie.

A leggere i comunicati dell’impresa ferroviaria, viene da pensare che il sette volte Presidente del Consiglio pensando male non solo faceva peccato ma, per sovrappiù, si sbagliava.

Da molti anni, tranne eccezioni, l’azienda chiude il bilancio in positivo. Nel 2021 l’utile netto è stato pari a 193 milioni con ricavi operativi per 12,2 miliardi. Tutto bene, dunque? L’azienda è finalmente risanata? Il diavolo, come sempre, è nei dettagli che non sono ancora noti per lo scorso anno ma sono disponibili per il bienno precedente. Nel 2019 l’ammontare dei ricavi complessivi è stato pressoché identico a quello dello scoso anno. Ora, per un’impresa che opera sul mercato gli introiti ordinari derivano dalla vendita di beni e servizi ai consumatori. Non è così per le Ferrovie dello Stato Italiane. I pagamenti dei passeggeri sono risultati pari a poco meno di quattro miliardi e quelli delle imprese per il traffico merci a 838 milioni (il fatturato dell’autotrasporto è intorno a 90 miliardi, più di cento volte tanto). I restanti sette miliardi derivano per la maggior parte da trasferimenti pubblici.

Pressoché interamente a carico della finanza pubblica sono anche gli investimenti: i pedaggi pagati dalle imprese di trasporto che utilizzano la rete non comprendono infatti la remunerazione degli stessi.

Nel 2020 le risorse pubbliche in conto investimento sono risultate pari a 7,3 miliardi con una forte accelerazione nel 2021.

Appare dunque evidente come la “metrica” del profitto che ben si adatta a descrivere il buon uso delle risorse nel settore privato sia invece del tutto inadeguata, se non fuorviante, per il caso specifico nel quale l’entità dell’utile o delle perdite dipende da quanto viene allentato il cordone della borsa statale.

Analagomente, non si può dare per scontato, come fanno le Ferrovie, che un elevato livello di investimenti sia una buona notizia in quanto “contribuisce significativamente al rafforzamento del Paese”. Il valore assoluto della spesa non può essere il parametro da massimizzare. Se così fosse, si dovrebbe concludere che passare dai 12,5 miliardi del 2021 a ventiquattro o a trentasei costituisca di per sé un fatto positivo. Quello che conta è la redditività delle risorse impiegate. Abbiamo già visto che quella finanziaria è pressoché inesistente. E quella sociale? Per valutarla è necessario predisporre valutazioni costi-benefici nella quale i vantaggi per gli utenti vengono misurati in termini di miglioramento del loro benessere (superiore al prezzo pagato) e si includono anche le ricadute positive per la collettività in termini di minor inquinamento e incidentalità.

Queste analisi, che in passato erano pressoché introvabili, sono oggi consultabili da tutti sul sito del Ministero per la mobilità e le infastrutture sostenibili. E’ una buona notizia per la trasparenza decisionale. Quella meno buona è che il compito di predisporre tali valutazioni è affidato alle stesse Ferrovie ossia il soggetto che, in caso di risultato positivo, riceverà il finanziamento per realizzare l’opera. La metodologia adottata non è conforme a quanto previsto dalle linee guida della UE e, per alcuni aspetti, è priva di riscontro nella letteratura scientifica di riferimento. Non si tratta di minuzie: l’approccio adottato comporta una forte sovrastima dei benefici e può portare, come nel caso della linea ferroviaria Salerno – Reggio Calabria, a un ribaltamento del risultato: una sonora bocciatura si trasforma in una promozione a pieni voti.

Il fatto che tutte le valutazioni pubblicate abbiano esito positivo fa  tornare alla mente cattivi pensieri andreottiani. Per scacciarli sarebbe opportuno che il giudizio sulla opportunità di realizzare una nuova tratta o di accrescere i sussidi per i servizi venisse affidato a chi eroga il finanziamento.

D’altra parte, se guardiamo ai decenni passati, possiamo rilevare come a fronte di un onere molto elevato per la finanza pubblica, poco meno di 450 miliardi nel periodo che va dal 1990 al 2016, i benefici ambientali conseguiti per la collettività siano stati del tutto modesti. Gli spostamenti su ferrovia rappresentano oggi il 6,3% della mobilità terrestre. Quale sarebbe stata la quota di domanda soddisfatta, qualora si fossero azzerate o fortemente ridotte le risorse pubbliche a favore del trasporto ferroviario? Ipotizziamo, probabilmente con un eccesso di pessimismo, che essa si sarebbe ridotta a un misero 2%. Del restante 4% possiamo immaginare che un 1% sarebbero viaggi non più effettuati, un altro 1% verrebbe acquisito dagli autobus e il restante 2% dall’auto. Sia in termini di qualità dell’aria che di cambiamento climatico gli effetti sarebbero quasi trascurabili. La ricaduta più significativa sarebbe quella sulla congestione urbana ma anche con riferimento a questo aspetto è necessaria una precisazione. Nella scelta del modo di trasporto è molto più importante il tempo del prezzo del biglietto. E il treno è spesso il mezzo più veloce per raggiungere le aree centrali delle grandi città. Non a caso, il Paese dove il traffico ferroviario è cresciuto di più negli ultimi venticinque anni è il Regno Unito dove il costo dei servizi (non della infrastruttura) è interamente a carico di chi si sposta che paga molto di più rispetto ai Paesi dell’Europa continentale.

In sintesi: a far bene i conti si scopre che è la collettività a farsi carico di gran parte dei costi delle ferrovie  e che i benefici che ne ricava sono piuttosto evanescenti. Ma con un’abile narrazione – e in questo bisogna riconoscere che le Ferrovie ci sanno davvero fare –  si può far credere il contrario. 

Fonte: L’ultimo treno