1 giugno 2023
di Marco Ponti e Francesco Ramella
Come si aggira la legge sulla concorrenza
Una recentissima informativa dell’assessore lombardo alla mobilità sancisce ufficialmente che per i prossimi dieci anni (2023-2033) non vi sarà alcuna gara per l’affidamento del servizio ferroviario regionale. È molto probabile che la decisione sarà imitata quasi ovunque.
La materia è regolata dalla legge del governo Draghi sul mercato e la concorrenza (n. 118 del 5 agosto 2022). Quella legge era ancora denominata al 2021: benché l’obbligo di promulgarla annualmente risalga al 2017, è stata più volte rimandata, a riprova della conflittualità che la connotava.
Per i trasporti pubblici si presenta relativamente innovatrice e rigorosa, ponendo stretti limiti sia agli affidamenti “in house”, sia alla partecipazione degli enti locali nella fase di aggiudicazione delle gare, qualora concorressero con imprese proprie (cap. 3, par. 8 e 9).
Chi avesse seguito l’andamento delle proteste degli enti locali e dei sindacati e le resistenze politiche alla messa in gara dei servizi (definita da molti “liberalizzazione”), si sarebbe stupito del silenzio con cui quella legge è stata approvata. La spiegazione è verosimilmente da ricercare in un dettaglio luciferino: per i contratti di affidamento in essere, la legge rimanda alla normativa europea, che prevede fino al dicembre 2023 la possibilità (non certo un obbligo) di una loro proroga decennale (vedi. regolamento Ce n. 1370/2017 “si applica all’esercizio di servizi nazionali e internazionali di trasporto pubblico di passeggeri per ferrovia e altri modi di trasporto su rotaia e su strada”, articolo 1, paragrafo 2). Essendo quasi tutti contratti “in house”, ciò ha comportato proroghe fino a quella data per far scattare il più tardi possibile (dieci anni dopo) l’obbligo di gare.
La gara non è una liberalizzazione
Ora, non è facile trovare motivazioni politiche difendibili alla universale ostilità alle gare da parte degli enti locali, perché nulla hanno a che vedere con la liberalizzazione dei servizi. Anzi, ne perpetuano la natura monopolistica, solo rendendone periodico l’affidamento.
E ci troviamo di fronte a una forte contraddizione anche volendo considerare gli aspetti sociali del servizio, che risiedono nelle caratteristiche delle tariffe, della geometria e capillarità delle reti e delle fermate e nella frequenza dei servizi offerti al pubblico. Tutte queste caratteristiche, infatti, possono essere definite rigidamente nel bando di gara e quindi non sono soggette a nessun arbitrio o scelta dell’impresa vincitrice.
Per un altro aspetto a valenza sociale, il trattamento del personale dipendente, è prevista una “clausola sociale” con l’obbligo per il subentrante di assumere tutto il personale dell’“incumbent” (ci si chiede peraltro perché questo settore debba essere regolato da norme diverse da quelle ordinarie: ci sono lavoratori più uguali di altri?). Non è così per i dirigenti e gli amministratori, spesso di nomina politica, e ciò può spiegare le resistenze all’innovazione di queste categorie, talvolta nei fatti allineate ai sindacati più combattivi.
Cosa viene messo in gara, dunque, in una competizione di questa natura, nota come “per il mercato” proprio per distinguerla da una liberalizzazione vera, cioè “nel mercato”? Essenzialmente, ai concorrenti si chiedono due cose: se possono fornire gli stessi servizi con minori sussidi – che ammontano in media a più della metà dei costi di produzione – riducendo così l’onere per le casse pubbliche; o se possono aumentare la quantità di servizi offerti e migliorarne la qualità, a parità di risorse. L’ente locale che bandisce la gara è perfettamente libero di determinare punteggi basati su un mix di questi obiettivi, a sua esclusiva discrezione.
Se teme cambiamenti eccessivi e di controllo incerto, l’ente locale che bandisce la gara potrebbe anche limitarsi a sperimentare, mettendo in gara solo parte dei servizi. Nel bando, potrebbe poi anche chiedere una riduzione tariffaria: poiché i ricavi da tariffa sono generalmente dell’ordine del 30 per cento dei costi di produzione, una riduzione anche solo del 10 per cento potrebbe rendere gratuito il servizio per un terzo degli utenti. Gli effetti sull’abbandono dell’automobile sarebbero trascurabili, ma cadrebbe ogni dubbio sul fatto che fare le gare significa – almeno potenzialmente – aumentare, e non diminuire, la socialità del servizio offerto.
Come spiegare allora la persistente ostilità alle gare dimostrata ancora una volta dalla volontà della Regione Lombardia di rinnovare il contratto con Trenord per altri dieci anni, con mirabolanti impegni di aumenti di traffico, di ricavi, di puntualità che, nel caso di inadempienza, comporterebbero sanzioni indirettamente a carico della regione stessa, in quanto comproprietaria dell’azienda?
La spiegazione più ovvia è in un diffuso fenomeno di “cattura del regolatore”, cioè del prevalere di interessi aziendali su quelli della collettività. Il fenomeno è basato essenzialmente sul “voto di scambio” con gli addetti. Per quanto protetti contrattualmente, dirigenti di nomina politica potrebbero trovarsi una proprietà meno benevola e meno condizionabile politicamente. Altre resistenze potrebbero venire dai fornitori: una cosa è contrattare con soggetti pubblici che politicamente non possono fallire, un’altra è farlo con soggetti privati che abbiano l’obiettivo di fare profitti.
Prorogare un regime di monopolio ha anche effetti di lungo periodo: il monopolista ha spazio per consolidare le sue posizioni, ergendo difese sia sul piano politico che informativo per rafforzare il messaggio che mettere in gara i servizi costituirebbe un danno per la collettività.