24 ottobre 2022
di Marco Ponti
Assumiamo che il governo Meloni sia una destra di tipo europeo, cioè un centrodestra liberale, non un festival di statalismo corporativo tipo ventennio. Un auspicio, niente di più.
Cosa dovrebbe fare? Quello che il governo Draghi non ha fatto: lui dipinto come un “riformatore neoliberista”, non ha riformato né liberalizzato niente. Non ha denunciato nemmeno monopoli pubblici e privati, di cui il paese abbonda. Non si è scagliato contro rendite e clientelismi, né contro sprechi del prezioso denaro dei contribuenti.
Che fare? (E’ un noto slogan di Lenin, ma insomma…)
Innanzitutto mettere un po’ di concorrenza nei servizi di trasporto locale (su ferro e su gomma), non liberalizzandoli per carità, ma almeno facendo gare vere, in modo da poterne aumentare l’efficienza, e così aver più servizi e/o ridurre le tariffe, come è successo nel resto d’Europa (ma magari quest’ultimo confronto non piace).
Per le ferrovie, continuare una delle poche cose che ha funzionato bene, e a favore di tutti gli utenti: far entrare altri concorrenti nei servizi passeggeri di lunga distanza (Alta Velocità e treni normali). E se qui i privati han funzionato, non si vede perché mantenere un attore pubblico, Trenitalia, che non può fallire e appartiene, lui solo, alla stessa impresa che gestisce i binari, FSI. Maglio che tutti seguano le stesse regole, e che quindi si venda, con grande beneficio per le finanze dello Stato, la componente pubblica sottratta alla una vera concorrenza.
Identico scenario vale per i servizi ferroviari merci: convivono operatori pubblici e privati, dimostrando nei fatti che la concorrenza sui binari funziona bene.
I sindacati non saranno tanto contenti, ma le ferrovie sono un noto covo di pericolosi comunisti, no?
Nel settore autostradale il governo precedente ha fatto un tale disastro che sarà difficile rimediarvi, ma occorre provare. Lo Stato non ha mai protetto gli utenti, prima da tariffe esosissime, poi con totale incuria nel controllare la manutenzione, fino ai 43 morti per il crollo del ponte Morandi. Invece di revocare la concessione, la proprietà è stata comperata a caro prezzo, un regalo di circa 8 miliardi. Non occorreva nazionalizzarla: bastava farne uno “spezzatino” (non ci sono economie di scala), mettere i pezzi in gare separate per la manutenzione, e liberalizzarne gran parte, visto che è già stata ammortizzata dagli utenti (c’è un ottimo esempio spagnolo al riguardo). Gli utenti invece dovranno continuare a pagare salatissime tariffe alla nuova proprietà mista pubblico-privata che la gestisce (capitanata da CDP). Qui per rinunciare ad una gallina dalle enormi uova d’oro ci vorrebbe un coraggio leonino, ma da una destra bellicosa ce lo si potrebbe anche aspettare…avanti arditi!
Anche la finta vendita ai privati dell’ex-Alitalia richiederebbe molto ardimento per trasformarla in una liberalizzazione vera: lo Stato all’oggi mantiene il 49% della società ITA con l’unico scopo di difenderla dai cattivi concorrenti esteri, a danno degli utenti (e questa difesa è stato il motivo dei 5 fallimenti consecutivi di Alitalia). Piacerà alla componente più fossile del nuovo governo, ma sperare è lecito.
Per i fossili servizi di taxi l’innovazione tecnologica in arrivo potrebbe aiutare, coinvolgendo i tassisti in uno scambio: vi finanziamo l’innovazione (piattaforme di gestione della domanda, veicoli elettrici, esperimenti di guida autonoma ecc.) in cambio di graduali livelli di apertura alla concorrenza.
Fratelli d’Italia infine aveva più volte espresso l’opportunità di rivedere il PNRR. Questo progetto, oltre a presentare ritardi, appare sempre più di bassa qualità: un coacervo di spese (una “shopping list” per dirla all’inglese, ma di nuovo meglio evitare) con un disegno strategico debole. Ma per la parte investimenti nei trasporti, molto peggio di così: grandi opere di dubbia utilità, con costi altissimi, impatti occupazionali modesti e temporanei, contenuto innovativo nullo, benefici ambientali risibili o negativi, e opere per di più “irreversibili”.
E ora l’inflazione colpisce le componenti energivore delle opere pubbliche di questo tipo, ferro e cemento. C’è il rischio concreto di opere che non si finiscono, dando luogo non solo a infrastrutture sottoutilizzate, ma a sprechi assoluti di soldi pubblici. E questo quando emergono urgenze sociali di ben altra gravità.
Né è da credere che la pur poco amata Commissione Europea sia sorda di fronte a solide argomentazioni tecniche ed economiche sulla necessità, almeno in questo settore, di cambiare decisamente rotta al PNRR.
Per concludere adottiamo un motto trumpiano, “Let’s make Italy great again!”, ma meno con le armi, e più con azioni mirate ad una vera indipendenza economica del paese, che passa da una crescita economica assente da vent’anni, che ci consenta di gestire il nostro debito pubblico senza più timidezze.