3 luglio 2020

di Francesco Ramella

  • Le nostre conoscenze sulla evoluzione futura del clima sono limitate. Al contrario di quanto sostengono in molti non è però questa una buona ragione per non attuare da subito politiche di riduzione delle emissioni. Occorre, prima di tutto, scongiurare gli esiti peggiori pur se poco probabili
  • Non tutti gli interventi sono auspicabili. Occorre valutare costi e benefici di ciascuno di essi e non dilapidare risorse in politiche che non possono dare alcun contributo significativo alla risoluzione del problema come, ad esempio, aumentare ulteriormente la spesa pubblica per le ferrovie
  • Due sole appaiono essere le strade percorribili: quella della innovazione tecnologica che già ci ha consentito di porre ampio rimedio ad altri impatti ambientali, primo tra tutti l’inquinamento atmosferico che è stato radicalmente ridotto negli ultimi decenni, e quella della decrescita economica che, come abbiamo sperimentato negli ultimi mesi, non sembra affatto felice e comporterebbe elevatissimi costi economici e umani.

Non sappiamo come andrà a finire. Come scrive nel suo più recente paper Roger Pindyck della Sloan School of Management al MIT, sono molte le incertezze che riguardano l’evoluzione futura del clima. Dopo alcuni decenni di ricerca, la “forchetta” delle previsioni rimane ampia: l’incremento di temperatura atteso in corrispondenza di un raddoppio della concentrazione di anidride carbonica in atmosfera è compreso tra 1,5 e 4,5 °C.

Si tratta di scenari che implicano conseguenze assai diverse: quello oggi più verosimile dovrebbe portarci a un riscaldamento di 3°C al 2100 che determinerebbe, stando al più recente Rapporto dell’IPCC (p. 256), una riduzione del PIL mondiale rispetto allo scenario tendenziale del 2,6%, con forte varianza tra le diverse aree del globo.

L’incertezza non è una valida ragione per stare a guardare nell’attesa di avere a disposizione un quadro meglio definito. Non lo è soprattutto in considerazione del fatto che, mentre siamo in grado di prevedere con accettabile grado di approssimazione gli impatti relativi agli scenari più favorevoli, assai meno nitido è il quadro in quelli peggiori.

Inoltre, gli effetti sul clima dipendono dalla quantità cumulata di emissioni e le politiche adottate oggi avranno effetti significativi solo tra molti decenni. Si tratta di invertire la rotta di una superpetroliera che sta ancora accelerando: nel 2019 sono state immesse in atmosfera più tonnellate di CO2 che in tutti gli anni precedenti.

Detto questo, occorre anche comprendere cosa fare e cosa invece non fare. L’aver diagnosticato una malattia non implica di per sé che qualsiasi terapia sia auspicabile. Prima di adottarla, occorre valutare effetti positivi e controindicazioni e procedere se i primi sono più grandi dei secondi. Non assumeremmo un farmaco che riduce la febbre di un decimo di grado ma che provoca una fortissima emicrania.

Come ha notato Kenneth Rogoff (Harvard University), il dibattito sul clima nei Paesi occidentali è interamente incentrato sulle politiche da adottare all’’interno e non tiene conto del fatto che la crescita delle emissioni è oggi riconducibile interamente alle altre aree del Pianeta.

Esaminiamo quanto accaduto dal 1990 al 2017: le emissioni totali di CO2 sono cresciute da 22 a 36 miliardi di tonnellate. Nello stesso periodo la quota parte riconducibile agli Stati Uniti si è ridotta dal 23 al 15% e quella della EU-28 si è dimezzata passando dal 20 al 10% (l’Italia dal 2% è scesa all’1%).

Questi numeri ci fanno capire come la “partita del clima” si giocherà sempre di più in trasferta sia per ragioni demografiche che per i diversi livelli di crescita. Inoltre, è assai improbabile che vi possano essere ricadute significative conseguenti a modifiche dei comportamenti dei singoli.

Al riguardo, è significativo considerare quanto accaduto nel caso di un altro problema ambientale, quello dell’inquinamento atmosferico che, a differenza del cambiamento climatico con il quale a volte viene confuso, si manifesta a scala locale e che, nella maggior parte dei Paesi, è in via di risoluzione più o meno avanzata.

In epoca recente – di cattiva qualità dell’aria si lamentava già Seneca a Roma duemila anni fa – le prime rilevanti preoccupazioni risalgono a mezzo secolo fa: nella campagna presidenziale del 1968 Richard Nixon avvertiva gli elettori che negli anni 2000 le città americane sarebbero divenute invivibili a causa del numero troppo elevato di residenti e degli intollerabili livelli di inquinamento atmosferico. Le cose sono però andate diversamente e non perché gli americani abbiano abbandonato l’auto, al contrario, ma grazie al fatto che l’innovazione tecnologica ha ridotto radicalmente la quantità di gas di scarico dei veicoli.

Analogo processo è accaduto in Europa: è grazie agli ingegneri delle vituperate case automobilistiche più che alle campagne ambientaliste o ai piani della mobilità che la qualità dell’aria nelle nostre città è molto migliorata. In assenza di questo fattore, sarebbe accaduto l’opposto.

Non saranno i bonus bicicletta del Governo italiano o la ancor maggiore spesa pubblica per le ferrovie voluta da Bruxelles a poter influire sul clima futuro. Basti pensare che dopo decenni di politiche a favore della bici in Olanda e Danimarca e del treno in Svizzera, i tre Paesi hanno emissioni pro-capite di CO2 maggiori di quelle dell’Italia e che tra il 2005 e il 2017 gli autoveicoli venduti nel Mondo sono cresciuti di poco meno del 50%.

Il caso più clamoroso di presunta politica climatica è rappresentato probabilmente dalla costruzione della nuova linea ferroviaria tra Torino – Lione: la quantità di CO2 correlata alla costruzione del tunnel verrebbe compensata solo dopo molti decenni ma questo solo nella ipotesi che i mezzi stradali continuino ad avere emissioni pari a quelle attuali ossia che nello stesso arco di tempo le emissioni complessive del settore siano aumentate a livello mondiale, proporzionalmente alla prevedibile crescita della mobilità, di due o tre volte.

 

 

Tutti gli sforzi e le risorse dovrebbero quindi essere investiti per ridurre il costo delle forme di produzione di energia a basso o nullo contenuto di CO2 al di sotto di quello delle fonti fossili che non continuano a essere utilizzate per colpa dei produttori ma per scelta dei consumatori.

Altra via non c’è. Tranne una, quella che abbiamo dolorosamente sperimentato negli scorsi mesi ossia un lockdown globale a tempo indeterminato. L’esperienza vissuta e le conseguenze negative che solo in parte si sono già manifestate dovrebbero portarci a escludere che questa strada sia auspicabile. Non lo è in termini di costi umani inflitti e, paradossalmente, non lo è neppure se guardiamo alle minacce climatiche.

Se da un lato dobbiamo “proteggere il clima” futuro scongiurando un esito molto negativo nel lungo termine, dall’altro non dobbiamo dimenticarci che la crescita della ricchezza e delle conoscenze scientifiche non solo ha reso possibile un miglioramento senza precedenti delle condizioni di vita sulla Terra ma ci ha anche consentito di “proteggerci dal clima” molto meglio che nel passato: anche se pochissimi ne sono a conoscenza, tra gli anni ’80 dello scorso secolo e la decade che abbiamo alle spalle la mortalità causata da eventi estremi si è ridotta di ben 6,5 volte.

 

Per farla breve, non dobbiamo buttare via con l’acqua sporca delle emissioni anche il bambino della crescita che sembra invece essere il vero obiettivo di alcuni attivisti del clima.

È un po’ come andare in bicicletta: ci si può fare male correndo troppo ma si può cadere anche se si va troppo piano e si perde l’equilibrio.

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