29 marzo 2024

di Marco Ponti

La questione

C’è un tema che tormenta da sempre chi si serve dell’analisi costi-benefici (ACB). Questo metodo è notoriamente poco usato in Italia o, con poche felici eccezioni, è usato in modo distorto per legittimare qualsiasi scelta politica, anche le meno attente all’utilità sociale dei progetti. A volte è usato “a posteriori” di scelte già prese, come insegna il caso del PNRR e del ponte di Messina.

Per l’ACB il tema in questione è che il metodo non terrebbe abbastanza conto della socialità, che la politica invece avrebbe a cuore.

Questo argomento è largamente usato dai decisori di tutte le parti politiche, che tuttavia ben si guardano di quantificare gli impatti sociali delle loro scelte: si limitano a dichiararli (è noto come “l’arbitrio del principe benevolo”). Come vedremo, oggi le tecniche per misurare gli impatti sociali esistono, per quanto approssimate.

L’argomento distributivo, in sé, non è privo di fondamento, in quanto concettualmente l’ACB si esprime in termini aggregati e si appoggia ad un metodo di misura, la “disponibilità a pagare” (per esempio, per risparmiare tempo), che dipende da due fattori disomogenei.

Il primo è l’utilità, cioè quanto un bene, ad esempio un’ora persa, è importante per quel viaggiatore. Ma il secondo è il reddito: è evidente che un viaggiatore più ricco a parità di utilità è disposto a pagare di più per risparmiarla.

Tra due strade identiche per costi di investimento e per benefici, una tra due quartieri benestanti e una tra due a basso reddito, se decisa in base alla “disponibilità a pagare” vedrebbe prevalere la prima.

L’argomento distributivo è forse confutabile osservando che le scelte sulla socialità sarebbero gestite meglio e in modo più trasparente attraverso la politica fiscale, che in effetti in Italia è, almeno teoricamente, progressiva, cioè molto più che proporzionale. Per chiarire: chi guadagna 10 paga 1, chi guadagna 100 non paga 10, paga circa 30.

Inoltre sul versante dei costi di investimento, questi non ricadono in misura uguale su tutti i contribuenti, ma proprio in base alla progressività del prelievo fiscale. E questo è forse la confutazione più solida.

Infine forse vale anche l’osservazione che in nessun paese sviluppato vengono contabilizzati gli impatti distributivi degli investimenti infrastrutturali.

Gli argomenti a favore

Tuttavia queste argomentazioni si scontrano in Italia con un elevato livello di evasione o elusione fiscale, concentrata nel lavoro autonomo ma anche nei redditi più elevati, che dispongono di maggiori mezzi, anche legali, per alleggerire la pressione fiscale, mentre per il lavoro dipendente e per i pensionati è difficile sfuggire, avendo trattenute “alla fonte”.

Non solo: molte categorie marginali (es. gli immigrati) non riescono nemmeno a entrare nel mercato del lavoro regolare, né godere di tutele sociali di alcun tipo.

Ne consegue che sembra ragionevole tener conto anche degli impatti distributivi (cioè, delle variazioni di benessere tra gruppi sociali con redditi diversi) in tutte le scelte di spesa pubblica e tentare di quantificarli per quanto possibile.

Anche per le analisi costi-benefici è utile, in estrema sintesi, porsi il problema: “costi e benefici per chi?”.

E proprio questo tipo di analisi sembra prestarsi bene ad incorporare variabili distributive. Infatti è strutturata monetizzando tutti gli impatti su tutti gli “attori” del progetto (tutti gli “stakeholders”), positivi e negativi, per poi trarne una sintesi che si limita a trarne un solo indicatore sostanziale: la prevalenza dei costi sui benefici totali (o viceversa).

Questa sintesi finale ha l’ovvio vantaggio non solo della semplicità, ma anche quelli di facilitare i confronti con altre scelte di spesa, e di affidarsi ad un ”linguaggio” internazionale condiviso, e quindi trasparente e contestabile.

Si ricorda per inciso che in Italia esiste un obbligo normativo a fare queste analisi, ma non è mai considerata la noma, pur presente, di  confrontare scelte alternative, il che ovviamente rende lo strumento molto più esposto ad usi strumentali.

Cosa fare in pratica

Come migliorare le analisi, senza pagare un prezzo di aumentarne la complessità?

Innanzitutto, è necessario avere le informazioni di base, ma questo con gli attuali strumenti modellistici di simulazione del traffico non sembra particolarmente complesso.

Per i passeggeri, nell’impossibilità di conoscere la distribuzione dei redditi, è sufficiente in prima approssimazione avere una ripartizione per i motivi del viaggio, che è comunque indispensabile per giungere a stime accettabili del valore del tempo (risparmiato o perduto).

Notoriamente la ripartizione più comune riguarda i motivi di lavoro, o per recarsi al lavoro, di tempo libero, di studio, o famigliari.

All’interno dei diversi motivi sarebbe invece fondamentale disporre di indagini specifiche sui livelli di reddito, ma per progetti molto onerosi l’incidenza del costo di sondaggi ad-hoc sarebbe trascurabile. 

Ma esistono anche altri approcci possibili: il tipo di mezzo scelto, per esempio, o il modello di autoveicolo. Ed ancora, a livello spaziale anche l’origine e la destinazione dei viaggi può essere indicativa.

Il quadro si complica per i risparmi (o i vantaggi) monetari: risparmiare carburante non ha lo stesso peso per utenti ad alto o basso reddito (anche perché è noto dalla letteratura che questo costo ha impatti regressivi, cioè, incide percentualmente di più sui redditi bassi).

I vantaggi monetari nell’uso dei mezzi collettivi sembrano diretti a favore delle categorie a più basso reddito, ma ci sono tuttavia due rilevanti eccezioni: gli utenti delle aree centrali delle maggiori città, e quelli dei servizi di alta velocità ferroviaria.

Il problema invece sembra perdere di significato per il trasporto merci: modificare tempi e costi di viaggio non presenta impatti distributivi socialmente rilevanti.

Una conclusione possibile

Si è già osservato che per i costi finanziari netti degli investimenti l’impatto sulle diverse categorie di reddito è riconducibile in prima approssimazione alla progressività espressa dalle aliquote fiscali.

Cioè, se sono reali le grandezze che abbiamo citato sopra sulla progressività delle tasse, dobbiamo assumere che la collettività ritenga che il sacrificio che fa un contribuente che guadagna 100 a privarsi di 30 sia analogo a quello che ne fa uno che guadagna 10 a privarsi di 1.

Se così non fosse, la collettività imporrebbe arbitrariamente sacrifici diversi ai suoi cittadini per far fronte ai servizi sociali, o comunque collettivi, che lo Stato garantisce.

Questa “uguaglianza di sacrifici” per gli economisti prende il nome di “utilità marginale decrescente del reddito”.

Un esempio per chiarire: il prezzo di un appartamento in città può essere uguale a quello di uno al mare, ma l’utilità è diversissima tra i due se uno è la prima casa e l’altro solo la seconda. Vale anche per ogni altro bene, ad esempio le scarpe: il primo paio significa non andare scalzi, il secondo preferire un modello diverso, il terzo per il colore ecc..

Se è così, avremmo anche una prima indicazione di come misurare in pratica un principio di teoria economica (e la praticità è la premessa di queste note).

Il beneficio o il costo economico per diverse classi di reddito degli utenti potrebbe differenziarsi sulla base della progressività delle aliquote fiscali, anche per coerenza col fatto che questo avviene per i costi di investimento.

Ma il discorso è complesso, e qui ci limitiamo ad enunciarne i principi, limitandoci per ora a sottolineare che è difficile ignorare il problema, soprattutto in misura in cui la “differenza di utilità del reddito” non sembra un’assunzione ideologica, ma essere basata su considerazioni empiriche difficilmente contestabili.

(Questo articolo è il secondo di due sui risultati teorici emersi dal convegno Politecnico-BRT del 21 febbraio scorso)