Gli arditi esperimenti prima di Delrio e poi di Toninelli, di ridurre l’arbitrarietà delle scelte pubbliche nel settore delle infrastrutture di trasporto in Italia sembrano destinati a simmetrici fallimenti. A rigore, il primo sembra aver capito subito l’impossibilità politica dell’operazione, e neanche ci ha provato: ha fatto delle linee-guida per valutare, poi ha subito deciso che per le opere da lui giudicate “strategiche” (per 133 miliardi di €, non proprio noccioline!) non occorreva alcuna analisi. Tutte utilissime a priori, nessun possibile spreco di soldi dei contribuenti.
Toninelli ci ha provato sul serio, facendole fare in modo sistematico per la prima volta in Italia senza chiedere ai diretti interessati, cioè senza chiedere all’oste se il vino è buono, come si era fatto nelle pochissime analisi precedenti di questo tipo.
Si è subito scatenato l’inferno: contro questa operazione si è detto che i tecnici scelti erano incapaci, parziali, o corrotti, o tutto questo insieme. Negando persino l’evidenza: quei tecnici, (di cui lo scrivente è il coordinatore senza compenso, o meglio con un compenso di immagine molto negativo) forti della letteratura internazionale più aggiornata, hanno immediatamente applicato con rigore una metodologia che è risultata impietosa per gli investimenti ferroviari, che si ricorda, escluso per poche grandi opere, sono parte sostanziale del programma di 5 Stelle (“Cura del ferro bis”, dopo quella di Delrio). Poi si è partiti all’assalto della metodologia, arruolando un folto gruppo di studiosi che mai prima si erano sognati né di occuparsi di analisi costi-benefici nei trasporti (tecnica molto specifica), né avevano obiettato alla metodologia delle scelte precedenti. E qui certo avevano una sostanziale attenuante: essendo le scelte fatte in precedenza per la gran parte arbitrarie, non avevano molte metodologie da criticare, nemmeno per le opere più vistosamente inutili. Quei pochi, del folto gruppo di studiosi citato, che di analisi ne aveva fatte, per ragioni misteriose o forse casuali, aveva sempre detto SI a tutto, con grande soddisfazione dei committenti, e garantendo all’Italia magnifiche sorti e progressive di sviluppo economico.
Ovviamente dopo gli attacchi, scientifici e non ma tutti fortemente sostenuti e pubblicizzati dai media della carta stampata e dal mondo digitale, anche il mondo politico si è espresso, vedendo una perfetta e serena solidarietà tra Lega, Pd, Forza Italia e Fratelli d’Italia (SI TAV, SI TUTTO slogan assai diffuso). Ma le parti sociali potevano mancare? Confindustria si è addirittura spinta a definire le Grandi Opere “anticicliche e fondamentali per l’occupazione” (ignorando forse che i tempi medi di realizzazione sono dell’ordine di una decina d’anni, e che il moltiplicatore occupazionale di un settore notoriamente capital-intensive è assai inferiore di quello, per esempio, dell’edilizia o delle manutenzioni, con buona pace delle centinaia di ponti stradali chiusi e delle loro merci ferme nel traffico).
Il sindacato non poteva mancare, anche se per quello maggiore il neo-eletto Landini ha dovuto fare, per dichiarate ragioni di consenso, un rapido ed esplicito mutamento di rotta rispetto a posizioni precedenti.
Chiaramente, siamo di fronte ad una volontà ferrea e plebiscitaria: il cemento è una assoluta priorità per il Paese, come cinquant’anni fa. Tutto cambia al mondo, ma non il peso del partito del cemento in Italia.
E questo partito, abbiamo visto, si presenta come perfettamente trasversale: coinvolge le forze politiche, i media, e le forze sociali organizzate. Le analisi che ne mettessero in dubbio la dominanza sono per definizione condannate alla sconfitta storica.
Già questo appare evidente nelle prime fasi del lavoro svolto: i risultati negativi per il progetto ferroviario del terzo valico tra Milano e Genova (6 miliardi di preventivo) sono stati immediatamente contraddetti da una scelta politica. E lo stesso è a rischio di accadere per ferrovie destinate a rimanere deserte nel Mezzogiorno e per la linea AV Brescia-Padova, opere tutte multimiliardarie.
Inoltre le teorie economiche moderne sui meccanismi di decisione pubblica confermano pienamente il quadro qui delineato: la ricerca del consenso è priorità assoluta del “principe eletto” (non del dittatore). Ed in termini di consenso le grandi opere civili sono uno strumento perfetto, e non solo in Italia. Sono lunghe da realizzare: se risulteranno uno spreco, i responsabili politici non ne risponderanno. Chi paga, i contribuenti, non lo sanno e non lo sapranno (e tutti si adopereranno per non farglielo sapere). Gli utenti (sia i passeggeri che chi trasporta merci), non pagando l’opera, saranno comunque molto contenti, anche se i numeri saranno tragicamente ridotti. I costruttori sono molto contenti (il settore è poco aperto alla concorrenza), e spesso manifestano gratitudine. I lavoratori dei cantieri anche, pur se poco numerosi. I politici locali e centrali aumentano i loro consenso. Chi può immaginarsi di meglio?
Peccato che queste opere, povere di tecnologia (il settore è “maturo”) e di utilità almeno dubbia, non faranno crescere il Paese, al contrario di settori nei quali il resto del mondo sviluppato, pur non esente a volte da logiche del tipo sopra descritto, dedica la grande parte degli investimenti pubblici.
Marco Ponti