3 giugno 2024

di Marco Ponti

Delle quattro aree che risultano le più caratterizzanti per le politiche del settore, nell’articolo precedente abbiamo trattato le liberalizzazioni, cioè della selezione delle imprese più efficienti effettuata dai meccanismi di mercato, che è uno degli obiettivi fondanti dell’Unione.

In questo, tratteremo sinteticamente altre tre aree:

– le infrastrutture, che essendo monopoli naturali non possono che essere decise da soggetti pubblici,

– l’ambiente, anch’esso un aspetto che postula l’azione pubblica,

– la socialità, ovvero gli impatti sulla distribuzione del benessere economico, obiettivo eminentemente pubblico.

Le infrastrutture

La politica europea si è concretizzata nella promozione e nel sostegno economico per una serie di corridoi europei (TEN-T), essenzialmente ferroviari per ragioni ambientali, ma sostanzialmente decisi dai singoli paesi attraversati.

Già dalla fine del secolo scorso era emersa la disfunzionalità di tracciare sulla carta geografica lunghe linee più o meno rettilinee ignorando totalmente la reale domanda di trasporto, che certo non ha nulla a che fare con la geometria.

La vicenda ha assunto dimensioni grottesche, con l’aumento ininterrotto dapprima del numero di corridoi da finanziare, poi anche con l’aggiunta “a pettine” di infrastrutture afferenti ai corridoi. Al punto che l’intero elenco di opere ha dovuto essere cancellato una quindicina di anni fa (si erano superate le centinaia).

Ma si è perseverato (diabolicamente, si può dire) con la stessa logica, definendo nove nuovi corridoi.

Per dare un’idea dalla razionalità di questi, uno collega Helsinki (Finlandia) con La Valletta (Malta), e la tratta italiana si biforca poi fino a Palermo, su nostra richiesta.

Ed essendo questi corridoi quasi esclusivamente di tipo ferroviario, cioè di un modo di trasporto che postula l’investimento interamente a carico delle casse pubbliche, la loro realizzazione procede in modo faticoso e discontinuo, in funzione delle risorse che si rendono disponibili.

Ma non si tratta di un male assoluto: molte tratte hanno una domanda insufficiente a giustificarne la realizzazione, data la logica con cui sono state definite.

E anche qualora questi nuovi corridoi fossero tutti realizzati, la capacità del modo ferroviario di attrarre domanda rimane tecnicamente limitata, quindi i benefici ambientali ed economici rimarrebbero verosimilmente modesti.

In particolare per difendere l’ambiente, come vedremo, sembra più efficiente colpire direttamente le esternalità ambientali dove si generano, cioè sui veicoli, che non sulle infrastrutture.

E anche sulle modalità di finanziamento di queste vi sono perplessità: sono compresenti in modo caotico principi tariffari diversi, che alterano arbitrariamente il funzionamento della concorrenza modale.

La differenziazione concerne la quota dei costi di investimento a carico degli utenti rispetto a quella a carico delle casse pubbliche. Se a carico degli utenti si definiscono “a costi medi”(ACP), se a carico delle casse pubbliche “a costi marginali” (MCP).

Per le ferrovie vigono sistemi di tariffazione ai costi marginali (MCP), per porti ed aeroporti sistemi misti, per altri (autostrade a pedaggio) ai costi medi (ACP), per altri ancora (la viabilità ordinaria) ad un prelievo indifferenziato tramite le accise sui carburanti.

L’efficienza economica privilegia il finanziamento a carico delle casse pubbliche (MCP), che ne garantisce il miglior utilizzo.

Se si decide di scostarsi da questo principio a causa di vincoli di bilancio, occorrerebbe farlo in modo omogeneo tra i diversi modi e le diverse tratte, pena vedere infrastrutture nuove costose e sottoutilizzate e infrastrutture già ammortizzate in condizione di congestione.

Sistemi tariffari noti come “in due parti” potrebbero essere una soluzione di compromesso accettabile (ma che è impossibile dettagliare qui).

Infine, anche le politiche di regolazione e di affidamento in concessione delle principali infrastrutture sembrano scarsamente razionali ed efficienti.

Alcune concessioni sono affidate in tutto o in parte a privati, con meccanismi di competizione raramente trasparenti ed efficaci (autostrade a pedaggio, ed alcuni porti ed aeroporti).

In particolare, i casi delle concessioni autostradali in Italia ed in Francia sono risultati molto problematici.

Altre concessioni sono interamente pubbliche, e alcune sono integrate verticalmente con i servizi che offrono, come le reti ferroviarie, con concessioni lunghissime e meccanismi regolatori deboli.

Infine le reti stradali ordinarie (o autostradali non sottoposte a tariffa), che sono di gran lunga l’infrastruttura di trasporto dominante, rispondono a logiche totalmente pubbliche, e a volta possono soffrire di risorse finanziarie inadeguate, anche in funzione della diversa provenienza possibile delle risorse (centrale o locale).

Una qualche forma di “earmarking” (cioè di allocazione programmata e meno discrezionale) dei fondi necessari sembrerebbe in genere raccomandabile.

L’ambiente

L’Europa si è mossa con decisione in due direzioni, per il segmento più inquinante del settore, quello stradale.

Ha definito standard di emissione periodici e crescenti (E1, 2, 3…), e ha promosso accise simili e molto elevate sui carburanti, al punto che secondo una meta-ricerca molto approfondita del Fondo Monetario Internazionale (“Getting the prices right”) in Europa i trasporti stradali sostanzialmente internalizzano la gran parte dei costi esterni, e comunque certo più che in altri settori e in altre parti del mondo, con poche eccezioni.

Recentemente ha anche definito due altre misure: l’azzeramento delle emissioni climalteranti entro il 2050, e la proibizione di commerciare veicoli stradali a combustione interna entro il 2035.

Ha anche recentemente definito il costo sociale delle emissioni di CO2 variabile da 100 a 800 euro a tonnellata entro il 2050, con l’impiego di un approccio che suscita molte perplessità, anche perché difforme da quello in uso nel resto del modo.

Comunque non tutto è positivo in questo quadro.

Innanzitutto l’approccio tariffario è notoriamente più efficiente di quello basato su standard, (e non necessariamente meno equo).

In secondo luogo, l’elettrificazione del parco veicolare, corredata anche da sussidi all’acquisto dei veicoli, non si è preoccupata di negoziare con l’industria automotive che il mix produttivo si concentrasse su veicoli a basso costo, in modo sia da accelerarne l’introduzione in massa sia di consentire anche ai redditi medio – bassi di accedervi.

Oggi i veicoli elettrici sul mercato sono molto costosi nonostante i sussidi, e ricchi di ogni tipo di accessorio proprio dei veicoli di alta gamma.

La scommessa (sostanzialmente fallita) di puntare al cambio modale dovrebbe oggi persuadere che per gli obiettivi ambientali europei sarebbe meglio puntare assai di più sull’elettrificazione accelerata del parco veicolare stradale, anche aprendo alla concorrenza cinese, più spostata verso modelli di gamma inferiore.

A parte lo stimolo che la concorrenza cinese genererebbe su produttori europei per lo spostamento di strategia verso vetture più economiche, c’è da osservare che ormai l’integrazione tecnologica internazionale in questo settore appare molto avanzata, e tale da

rendere incerti gli effetti di barriere protezionistiche.

In sintesi, l’osservazione che nonostante i sussidi al modo ferroviario e l’elevata fiscalità su quello stradale non hanno conseguito risultati ambientali di rilievo, sembra indicare che il “costo sociale” dell’abbattimento delle emissioni in questo settore sia molto alto.

Cioè vi sia una elevata “disponibilità a pagare” per il modo stradale. E cioè per le più diverse ragioni, la principale delle quali è relativa ai tempi totali di viaggio.

Ed è ovvio che a parità di risorse disponibili, abbattere le emissioni dove è più costoso danneggia l’ambiente.

Infine, il settore non è sottoposto al meccanismo europeo noto come ETS (Emission Trading System). Questo sistema basato sul mercato dei permessi (onerosi) di emissione, appare nel complesso razionale, e varrebbe la pena fosse gradualmente esteso anche ai trasporti (lo sarà a breve per alcuni tipi di trasporto marittimo). Consentirebbe un approccio meno arbitrario dell’attuale, che vede fortissime disparità tra settori inquinanti, alcuni dei quali notoriamente addirittura sussidiati.

Socialità

Questo tema non è direttamente oggetto di politiche europee, tuttavia sembra centrale a più generali e condivisibili obiettivi di equità (spesso comunque dichiarati a livello nazionale).

Perplessità specifiche sembrano sollevabili per una premessa e due questioni.

La premessa concerne la necessità di misurare gli impatti distributivi delle diverse politiche, e anche degli investimenti.

Questo oggi è perfettamente possibile, e non particolarmente oneroso.

Dovrebbe rientrare per lo meno nelle analisi raccomandate, accanto alle valutazioni economiche, per evitare un uso surrettizio di motivazioni sociali per giustificare politiche ed investimenti spesso difficilmente difendibili.

La prima questione concerne il modo di trasporto di lunga distanza più usato dalle categorie a basso reddito: i servizi di autobus. Questi pagano per intero i costi che generano, inclusi accise e pedaggi, mentre altri modi di trasporto meno socialmente difendibili sono fortemente sussidiati, in particolare il trasporto locale (nelle aree centrali usato da categorie di reddito medio-alte), e quello ferroviario di lunga distanza e di alta velocità, anche attraverso il criterio di tariffazione delle infrastrutture.

Non sembrano esservi giustificazioni a tale disparità.

La seconda questione concerne l’elettrificazione del parco veicolare stradale, che, come abbiamo già segnalato, sembra oggi offrire solo veicoli di costo elevato.

Le accise sui carburanti oggi hanno un impatto moderatamente regressivo, cioè colpiscono in proporzione maggiormente i redditi medio-bassi.

Considerato che un cambio modale non marginale non sembra in alcun modo conseguibile, la gran parte della mobilità delle persone in Europa continuerà ad usare l’automobile per la gran parte degli spostamenti.

Certo non sembra ragionevole, per ragioni ambientali, ridurre le accise sui carburanti, ma questo fatto rende ancora più critico introdurre criteri distributivi anche nelle politiche di elettrificazione del settore, per evitare che i costi della transizione ambientale ricadano sproporzionatamente ancora sulle categorie di reddito medio-basse.