31 luglio 2023
di Carlo Di Foggia
Il livello della squadra che Giorgia Meloni ha portato al governo è di per sé deludente, per questo nessuno si stupisce che Matteo Salvini, da ministro delle Infrastrutture, giri l’Italia a inaugurare cantieri promettendo la cura del cemento come soluzione al declino italiano fingendo di non ripetere la stessa filastrocca di chi l’ha preceduto negli ultimi decenni. Eppure la vicenda del Ponte sullo Stretto di Messina riesce a essere perfino più grottesca di così.
Come noto, Salvini ha deciso di ripristinare per decreto il vecchio progetto di Eurolink (capitanato dalla Webuild di Pietro Salini) bocciato nel 2013 dal governo Monti come uno spreco inutile di soldi. Il presidente dell’Autorità anticorruzione, Giuseppe Busia, ha provato a spiegare che così facendo si fa un regalo enorme a un costruttore privato in causa con lo Stato per 700 milioni, soprattutto se, come probabile, alla fine l’opera non si farà. L’opposizione l’ha lasciato solo e il ministero di Salvini lo ha trattato come un prevenuto che non sa leggere i testi, come se non fosse un giurista che si occupa di contratti pubblici ai massimi livelli da anni.
È sulle grandi opere infatti che si manifesta tutto il fanatismo della classe dirigente. Quattro anni fa l’economista Marco Ponti e gli altri autori dell’analisi costi-benefici sul Tav Torino-Lione, chiamati dal governo Conte 1, mostrarono quel che tutti sanno da sempre: il tunnel è uno spreco di risorse. I sedicenti competenti li hanno massacrati accusandoli di essere prevenuti. Come è andata a finire è noto e il team di Ponti è stato congedato.
Stavolta il problema si risolve alla radice: Salvini non ha nessuna intenzione di sottoporre il Ponte a un’analisi del genere, che considera un’inutile incombenza. “Bisogna osare”, ha spiegato, tanto più che il ponte “è un diritto degli italiani” e si deve partire nel 2024. Fare i conti per avere un quadro completo, se del caso da ignorare, non serve.
Per fortuna qualcuno ha pensato di farlo lo stesso. L’economista dei trasporti Francesco Ramella, già nel team di esperti chiamati ad analizzare Tav&C., ha pubblicato un’analisi per Bridges Research, l’associazione fondata da Ponti.
Breve premessa: l’analisi costi-benefici (Acb) non misura la sostenibilità finanziaria di un’opera, ma i suoi effetti economici, sociali e ambientali. Serve insomma a valutare se è meglio dirottare quei soldi altrove. Gli economisti dei trasporti usano criteri standard per calcolare il beneficio alla collettività. Se si prendesse solo la redditività finanziaria, non si costruirebbe quasi niente.
Fatta la premessa, quella del Ponte – il cui costo preso in considerazione è quello della sola opera in concessione (13,5 miliardi secondo il Def) – è negativa per circa 3,6 miliardi, cifra che scenderebbe se il ponte si limitasse alla sola parte stradale. Il problema principale è dovuto al tasso di crescita della domanda di utilizzo. Il report, forse ottimisticamente, assume che l’opera, una volta realizzata, assorbirebbe tutti i traffici serviti oggi dai servizi di traghettamento tra Villa San Giovanni e Messina (il 90% dei flussi nello Stretto) a cui non verrebbe chiesto pedaggio. Il ponte apporterebbe significativi benefici in termini di riduzione dei costi di trasporto per le province di Messina e Reggio Calabria (che vedrebbero un forte aumento della mobilità), molto meno per il resto delle due Regioni e quasi niente per le lunghe distanze. È probabile, scrive Ramella, che il ponte determini lo spostamento su ferrovia dei traffici passeggeri oggi serviti via aereo tra Catania e Napoli e parte di quelli tra Catania e Roma (nell’ipotesi, peraltro generosa, che venga realizzata l’Av Salerno-Reggio Calabria), ma l’effetto sarebbe marginale – visto l’elevato divario di tempi – sui flussi da e per il Centro-Sud e quasi zero per i collegamenti con il Nord Italia. I passeggeri spostati sull’itinerario terrestre sono stimati in 1,5 milioni mentre il traffico merci in 1,7 milioni di tonnellate, il quadruplo di quelle oggi trasportate su ferrovia. Il break even ambientale (il saldo zero tra emissioni di cantiere e quelle risparmiate) verrebbe raggiunto dopo 17 anni.
Perché, nonostante questo trasferimento modale, il risultato è così negativo? Perché la crescita della domanda di utilizzo è sostanzialmente nulla, secondo Ramella. Per evitare un risultato negativo, dovrebbe crescere dell’1,7% l’anno per i prossimi 40 anni, portando il numero di utilizzatori a 40 milioni, numeri incompatibili con le prospettive demografiche ed economiche. Se queste ultime fossero diverse, il discorso cambierebbe ma non può essere il ponte a generare un’inversione: la letteratura economica, spiega Ramella, non assegna alla riduzione dei tempi di percorrenza effetti economici particolarmente rilevanti per le aree coinvolte.
Il ponte sarà un diritto degli italiani, ma forse anche conoscere questi numeri lo è.