26 dicembre 2024

di Alfredo Drufuca

In un suo recente articolo pubblicato a proposito della riforma del Codice della Strada Francesco Ramella, persona di cui conosco  e apprezzo l’indiscutibile onestà intellettuale  e la rara volontà di fondare i giudizi sui dati e non viceversa, sostiene che le norme introdotte avverse all’uso della bicicletta debbano essere ascritte tra quelle positivamente capaci di ridurre l’incidentalità, data l’oggettiva maggiore pericolosità di tale mezzo rispetto al traporto pubblico e alla stessa auto privata.

Dal punto di vista strettamente statistico ha ragione: rispetto al trasporto pubblico la bicicletta è 100 volte più pericolosa, e lo è di 10 volte rispetto all’auto, ma questo non può giustificare la conclusione che ne trae, e cioè che sia corretto contrastarne l’utilizzo.

Se infatti seguiamo il suo ragionamento dovremmo a maggior ragione impedire l’andare a piedi dal momento che, sempre in termini di tasso di incidentalità, quel modo risulta essere ancor più pericoloso della bicicletta; ed è evidente come sia impossibile anche solo pensare di contrastarlo, non foss’altro perchè anche chi utilizza l’auto o il trasporto pubblico un tratto a piedi lo deve pur sempre compiere.

Il ragionamento da fare è quindi diverso, e deve anzitutto partire dal riconoscimento del ruolo non sostituibile che la mobilità attiva, ivi compreso  l’andare in bicicletta che è in buona misura semplicemente un modo più efficiente dell’andare a piedi,  ha nella costruzione del benessere sociale e nel buon funzionamento delle città.

Il costo della maggiore incidentalità che pur la affligge  va dunque in primo luogo valutato rispetto al beneficio sociale che quest’ultima, e solo quest’ultima, può garantire.

Ci si deve domandare poi se l’introduzione delle  misure che devono proteggere e favorire la ciclabilità riduce davvero e in che misura il benessere degli automobilisti: si tratta infatti essenzialmente di interventi finalizzati a moderare i comportamenti degli utenti motorizzati e pertanto destinati a procurare una quantità rilevante di benefici all’utenza motorizzata stessa, come ben dimostra l’esperienza delle città a 30 km/h e la riduzione generalizzata dell’incidentalità che ha apportato.

Da ultimo una riflessione circa il diritto alla mobilità: vi sono strati di popolazione che non hanno accesso all’auto, e che dipendono o dal modo pubblico –non sempre disponibile e comunque costoso- o dalla mobilità attiva.

Si tratta di una quantità di persone molto più ampia di quanto non si pensi, ma se anche si trattasse di una esigua minoranza, e non lo è, staremmo parlando di un diritto, quello alla mobilità, inseparabile da quello più generale di poter condurre la propria vita in modo autonomo, efficiente e dignitoso; un diritto dunque non negoziabile.

In conclusione, se la bicicletta è pericolosa, la risposta non può essere quella di impedirne l’uso, ma più ragionevolmente, quella di renderla sempre meno pericolosa: per questo la riforma di Salvini è, anche in questo, profondamente sbagliata.

P.S.: quanto sin qui detto si applica, amplificato, al monopattino, mezzo che si è rilevato essere di straordinaria utilità proprio per le fasce più disagiate in termini di mobilità ma che, in assenza di una qualunque capacità di controllo e repressione che ne garantisse un uso ordinato e responsabile, si è preferito nella riforma ostracizzare.