Le ferrovie strategiche per la crescita? Una notizia fortemente esagerata.
C’è un aggettivo che ricorre spesso in occasione della presentazione dei piani di investimento delle ferrovie: è “strategico” ossia di rilevante importanza per la crescita economica del Paese.
Si tratta della riproposizione di una narrazione tradizionale che attribuisce alle ferrovie un ruolo centrale per lo sviluppo economico a cavallo tra l’800 e il ‘900 e che venne messa in discussione più di mezzo secolo fa da Robert Fogel, economista vincitore del Nobel 1993, il quale stimò che la realizzazione della rete ferroviaria negli Stati Uniti comportò benefici pari all’1% del reddito nazionale e che in assenza della stessa la crescita registrata al 1890 sarebbe stata ritardata di soli tre mesi. L’effetto incrementale e non “strategico” è da ricondursi, secondo Fogel, alla modesta riduzione del costo di trasporto rispetto alla movimentazione via fiumi e canali navigabili.
Nel caso dell’Italia un recente paper pubblicato sulla European Review of Economic History mostra come nei 50 anni successivi alla nascita dello stato unitario, nessuna delle due aree abbia tratto benefici economici pur avendo il Sud beneficiato di una significativa espansione della rete ferroviaria (e il Nord di un aumento della alfabetizzazione). Come ha scritto su X uno degli autori, Guido De Blasio, si sono registrati “solo piccoli benefici dal mercato più ampio ma ampi costi per nuovi investimenti pubblici, spesso motivati da necessità di natura politica più che da criteri di efficienza economica”. Detto questo, non vi è dubbio che, al momento della sua comparsa, la ferrovia rappresentasse un’opzione di trasporto superiore rispetto a quelle prima disponibili (e altri studiosi giungono a conclusioni meno nette di quelle di Fogel). Tale condizione venne però meno a partire da un secolo fa con l’avvento di auto e camion per il trasporto terrestre e dell’aereo. Le ferrovie persero progressivamente la loro supremazia, non furono più finanziariamente sostenibili e vennero nazionalizzate sopravvivendo da allora solo grazie a ingenti trasferimenti di risorse pubbliche.
Il nostro boom economico coincise con l’avvento della motorizzazione di massa e la progressiva marginalizzazione delle ferrovie. Analogamente, i Paesi dell’Europa orientale dopo il crollo del Muro di Berlino hanno conosciuto, dopo decenni di stasi, un periodo di forte crescita mentre la mobilità ferroviaria, fiorente in precedenza, si è fortemente ridimensionata: negli undici Paesi che sono entrati a far parte della UE il trasporto su ferro si è ridotto in media del 60% per le persone e del 55% per le merci.

PIL procapite e mobilità delle persone su ferrovia in Polonia dal 1970 al 2022
Tornando all’Italia, non vi è evidenza di un impatto a scala nazionale della realizzazione dell’AV. Nel decennio successivo al completamento delle linee, si sono registrati tassi di crescita molto diversificati tra le Provincie i cui capoluoghi sono toccati dalla AV e il maggior aumento di reddito è stato quello di Bolzano che dista 300 km dalla più vicina stazione AV. Parimenti, non è possibile identificare un effetto positivo sulla crescita regionale dei collegamenti TGV in Francia. D’altra parte, i risparmi di tempo resi possibili dall’AV riguardano una percentuale minuscola della mobilità complessiva.
Dunque, nessuna strategicità o “volano per la crescita” ma, come constatato da Fogel per le merci nell’America dell’800, effetti incrementali. E, se questa è la corretta rappresentazione del fenomeno, l’approccio più corretto per valutare l’opportunità di nuovi investimenti dovrebbe essere quello “micro” proprio dell’analisi costi-benefici. Un approccio che include tra i benefici tutti i risparmi di tempo compresi quelli che non determinano un aumento di produttività e che porterebbe a dire molti più “No” che “Sì”.
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