10 novembre 2020
di Marco Ponti
- La socialità dei servizi (qualità e tariffe) non dipende da chi li produce: si possono mettere in gara anche servizi gratuiti, mentre, a parità di soldi pubblici disponibili, meno le imprese sono efficienti, meno servizi sociali si potranno fornire.
- I costi di produzione sono alti e le tariffe tra le più basse d’Europa. Cioè i deficit sono massimi, tanto i soldi arrivano sempre.
- Questo sistema ha retto male l’urto della pandemia. L’affollamento all’80% consentito sui mezzi, ora tardivamente riportato al 50 per cento, probabilmente è stato una concausa della seconda ondata del virus, ma era almeno in parte rimediabile.
Dagli anni Cinquanta del secolo scorso risulta fallita in Italia una sola impresa di trasporto pubblico (quella di Padova), nonostante il settore abbia spesso presentato inefficienze leggendarie, livelli incredibili di assenteismo, grandi deficit nonostante i sussidi, evasione tariffaria spettacolare (anche al 40 per cento), o manutenzioni inesistenti (con una quota elevata dei mezzi fermi quando non andati a fuoco).
Il settore è quasi tutto pubblico (al 100 per cento nelle maggiori città), e la gestione dei servizi dovrebbe essere affidata con gare, obbligatorie per legge europea. E le gare in Europa hanno dato buoni risultati, e sono prassi consolidata in molti paesi, soprattutto al nord.
Sarebbe stato più dignitoso non farle affatto. Il “voto di scambio” ha regnato e regna sovrano. Una recente indagine della Cassa Depositi e Prestiti ha riscontrato, rispetto al resto d’Europa, un elevato livello dei costi di produzione e della dotazione di servizi (spesso deserti, ma sarebbe il male minore), tariffe molto basse, e quindi il massimo del deficit possibile. Il tentativo di applicare “costi standard”, che non vuol dire affatto efficientare il sistema, ma solo evitare gli sprechi più clamorosi, sembra che si sia perso nelle nebbie ministeriali.
Un aspetto particolarmente inquietante concerne l’informazione del pubblico: nessuna delle maggiori amministrazioni locali pubblicizza il livello di sussidi della propria impresa. Anzi, fa spesso l’opposto: consente che queste imbroglino i cittadini, dichiarando “profitti”, inesistenti perché ottenuti a valle di un fiume di sussidi arbitrari. Che senso politico ha dichiarare di fare dieci milioni di profitti senza dire che si sono ricevuti cento milioni si sussidi?
E come ha funzionato questo inefficiente sistema con la pandemia? Abbastanza bene nel primo lockdown: il brusco e radicale calo dei passeggeri ha consentito distanziamenti nel complesso accettabili.
Con la ripresa delle attività lavorative e soprattutto scolastiche, è emersa una decisione inspiegabile: dichiarando che nel breve periodo non era possibile in tempi rapidi aumentare l’offerta (cioè assumere personale e comprare autobus), si è ammesso un riempimento massimo dell’80 per cento, con l’incredibile argomento che il ricambio d’aria era garantito dalla frequente apertura delle porte, e dalla ventilazione forzata. E, per finire in bellezza, sostenendo che “spesso i viaggi in autobus sono brevi”.
Ma c’è di peggio: una parziale soluzione era da subito disponibile e in tempi rapidi. Gli autobus turistici, molto numerosi in Italia, erano fermi e inutilizzati. Alcune regioni li hanno usati in numero limitato, ma altre no, con l’assurdo argomento che quegli autobus erano troppo ingombranti per transitare in alcune strette vie cittadine. Ma trattandosi di rinforzare i servizi esistenti, non di sostituirli, era sufficiente dedicare i mezzi più ingombranti alla parte più ampia della rete stradale.
A pensar male si va all’inferno…ma come non avere un dubbio che questa reticenza ad usare servizi privati non trovi qualche spiegazione nel fatto che questi tendono ad avere costi di produzione nettamente inferiori dei servizi pubblici che andrebbero ad integrare, e quindi richiedere meno sussidi, e che questo fatto potesse essere fonte di pensieri maligni e pericolosi?
Comunque, le imprese esistenti hanno subito reclamato che gli appalti agli autobus turistici non fossero diretti, ma fossero solo consentiti in forma di subappalto assegnato da loro.
E non è finita: ovviamente le automobili private sono molto meno pericolose dei mezzi pubblici in termini di rischio di contagio: beh, non una voce si è levata per esortare chi poteva a servirsene, per alleggerire il servizio pubblico in affanno, visto che fenomeni di congestione non ve ne erano più.
Il fattore ideologico anti automobilistico ha pesato al punto che la seconda città italiana, Milano, ha messo in atto durante e subito dopo il lockdown una segnaletica del tutto nuova, mirante esplicitamente a ridurre la capacità stradale per le automobili (questo era espressamente dichiarato nel programma), e l’indubbio beneficio per alcune nuove piste ciclabili, molto probabilmente ha prodotto un aumento di congestione e di inquinamento indotto dal ridotto spazio stradale.